di Damiano Palano
Benché sia difficile stilare graduatorie di popolarità, è molto probabile che i fotogrammi più famosi (e amati) di un presidente della repubblica siano quelli che ritraggono Sandro Pertini nello stadio Santiago Bernabeu di Madrid la sera dell’11 luglio 1982. Guardando con attenzione quelle immagini – in cui Pertini, con l’inseparabile pipa, scatta in piedi per salutare la terza rete segnata dall’Italia nella finale del Mundial spagnolo – non si riconosce d’altronde solo una scena ormai familiare, vista mille volte, e uno dei momenti forse più felici della storia nazionale recente. Osservando ora quell’immagine si può infatti cogliere anche l’anticipazione di tante cose che sarebbero arrivate dopo, e in particolare di uno stile che molti politici – con maggiore o minore successo – avrebbero cercato in qualche modo di emulare.
Come ricordava qualche tempo fa Marco Gervasoni nella sua Storia d’Italia degli anni ottanta, «nei viaggi ufficiali Pertini si presentava come un italiano nuovo e antico al tempo stesso: sovente le regole del protocollo venivano infrante e il presidente non si risparmiava le gaffe imbarazzanti, che però restituivano l’immagine di un paese vitale, dinamico, di cui ci si poteva sentire orgogliosi». E naturalmente il culmine si raggiunse proprio il giorno della finale tra Italia e Germania: «Nella tribuna d’onore dello stadio Bernabeu di Madrid, Pertini seduto accanto al re spagnolo Juan Carlos, esultò a ogni gol della Nazionale, gesticolando e inquietandosi, per poi partecipare in maniera certo non formale alla cerimonia della premiazione. Riportò infine la squadra in Italia con l’aereo presidenziale, facendosi riprendere dalle televisioni a giocare a scopone con l’allenatore, Enzo Bearzot» (M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 29).
Se nella ricostruzione delle trasformazioni degli anni Ottanta, Gervasoni si soffermava solo tangenzialmente sulla svolta comunicativa della presidenza di Pertini, nel suo nuovo lavoro considera invece ampiamente il significato e la portata di quell’esperienza, che in qualche modo segnò un punto di non ritorno nell’evoluzione della più elevata carica dello Stato. Nel recente Le armate del presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana (Marsilio, pp. 173, euro 19.00), Gervasoni ricostruisce infatti le trasformazioni nel ruolo giocato dal presidente della repubblica in quasi settant’anni di vita politica. E l’immagine che ne esce è quantomeno in contrasto con molte delle letture più consuete, che ritengono che l’inquilino del Quirinale sia (e debba essere) semplicemente un ‘arbitro’ del gioco politico, un ‘arbitro’, un ‘potere neutro’ che deve limitarsi a esercitare una funzione di custode della Costituzione, senza entrare nell’agone e senza influire sulle scelte degli esecutivi. In realtà, sostiene infatti Gervasoni, le diverse personalità che si sono succedute alla più alta carica dello Stato hanno cercato – seppur con ritmi e stili differenti – di influire sulla linea dei differenti governi, tentando più spesso di quanto non si creda di determinarne la stessa composizione. Ma soprattutto – ed è questa la tesi principale del lavoro di Gervasoni – la figura del presidente ha quasi assunto i contorni di una sorta di antagonista non tanto del Parlamento quanto dei partiti. E se nei primi tre decenni della storia repubblicana gli inquilini del Quirinale non riuscirono, se non episodicamente, a esercitare un’azione di stabile controllo sui partiti (e sugli esecutivi), a partire dalla presidenza di Pertini qualcosa iniziò a cambiare, perché, da quel momento, il presidente poté utilizzare una preziosissima risorsa di legittimazione: una risorsa che non proveniva naturalmente dall’elezione diretta da parte dei cittadini, ma da un utilizzo della comunicazione che consentiva di stabilire un rapporto ‘diretto’ con i telespettatori. Proprio un simile rapporto venne a rafforzare quella che Gervasoni chiama – weberianamente – la «potenza» del Presidente: «la possibilità, che un uomo o una pluralità di uomini possiede di imporre il proprio volere in un agire di comunità anche contro la resistenza di altri soggetti partecipi di questo agire». E per questo – pur nel quadro delineato dal dettato costituzionale – «il capo dello Stato si trasformò nel solo potere frenante nei confronti dell’espansione della partitocrazia e, in alcuni casi, persino nel suo principale antagonista» (p. 12).
La tendenza alla ‘politicizzazione’ può essere già ravvisata nella presidenza di Enrico De Nicola, e in particolare nel suo rifiuto di rivolgere un ringraziamento agli Stati Uniti per gli aiuti del piano Marshall. Ma questa tendenza divenne sempre più chiara con la presidenza di Luigi Einaudi, in particolare in occasione della formazione del governo Pella (p. 47). Se De Nicola e Einaudi non avevano mai potuto contare su solidi legami di partito, i loro successori al Quirinale provenivano invece direttamente dal ceto politico, e questo ebbe conseguenze tutt’altro che irrilevanti sull’interpretazione della carica. In particolare, Gronchi – che, come nota Gervasoni, «fu il primo presidente della repubblica dotato di una sua, pur piccola, corrente organizzata e il primo organicamente politico di professione» (p. 51) – tentò effettivamente di estendere i confini del proprio ruolo, principalmente perché, al Quirinale, non cessò di essere un ‘uomo di partito’, sostenendo per esempio l’allargamento a sinistra della maggioranza di governo, suggerendo i nomi di alcuni ministri, conducendo una sorta di politica estera ‘parallela’ e addirittura richiedendo l’istituzione di uno specifico Ministero delle Partecipazioni statali. Durante la presidenza di Gronchi è dunque possibile ravvisare i primi rilevanti segnali di come il ruolo effettivo del Presidente tendesse a diventare un ‘freno’ nei confronti dei partiti: dal momento che le rivalità interne ai partiti rischiavano di paralizzare l’azione governativa, il presidente della repubblica veniva ad assumere un profilo di ‘controllore’ della loro attività (e non dunque semplicemente di ‘custode’ della Costituzione), con l’obiettivo di conferire maggiore coerenza ed efficacia all’azione di governo. Ma proprio per questo i tentativi di estendere il potere del Presidente dovevano quasi inevitabilmente scontrarsi con le resistenze dei partiti.
In questa progressiva trasformazione del Presidente in un «potere frenante» non poco dovevano contare la personalità, la provenienza e il profilo psicologico di chi era chiamato a rivestire la carica. Ciò nonostante, è possibile riconoscere una linea di continuità, come dimostra d’altronde anche la breve presidenza di Antonio Segni, del tutto in linea con quella di Gronchi: «da premier Segni aveva dovuto subire Gronchi, riuscendo spesso a limitarlo, ma ora si trovava dall’altra parte della barricata con maggior potere, visto che deteneva il consenso della maggioranza dorotea, di cui continuava in sostanza a essere il capocorrente. Come Gronchi, Segni intrecciò poi un rapporto preferenziale con i vertici del Sifar e con settori dell’esercito e creò una task force, sia pure informale, al Quirinale, per esercitare un controllo accuratissimo sulle leggi. Come il suo predecessore impose al governo le nomine dei suoi uomini, non solo all’esecutivo, ma anche nell’alta burocrazia, nell’esercito, nei numerosi enti controllati dal governo» (pp. 62-63). Per molti motivi, Segni fu però un Presidente debole, e – a dispetto dei progetti presidenzialisti che proprio in quella fase incominciarono ad affiorare – i suoi tentativi di contrastare la formula governativa del centro-sinistra si rivelarono sostanzialmente inefficaci. Nella strisciante contrapposizione tra partiti e Presidente, ad avere la meglio furono senz’altro i primi. E la forza del «regime dei partiti», secondo la lettura di Gervasoni, limitò così notevolmente i due presidenti successivi, Saragat e Leone. Certo Saragat, dopo il 1968 (e il fallimento elettorale della fusione di Psi e Psdi), non nascose i propri disegni ‘presidenzialisti’ e non mancò di intraprendere alcune azioni ‘politiche’ significative, diventando di fatto «co-decisore» del governo. Ma nella realtà, con le sue iniziative, «finì per creare panico e scompiglio anziché fungere da stabilizzatore o almeno da protettore dalla paura, quale deve essere il leader come tribuno del popolo» (p. 79). E, d’altronde, «il regime dei partiti, di cui Saragat fu il garante, era ormai così sovrapposto allo Stato repubblicano che neanche se egli avesse voluto avrebbe potuto muoversi diversamente» (p. 80). L’ascesa di Leone al Colle segnò invece l’«apoteosi» dell’interpretazione ‘notarile’ della presidenza, principalmente per il profilo culturale dell’uomo politico napoletano, che non riuscì mai a stabilire alcuna empatia con l’opinione pubblica, e che per questo si trovò del tutto disarmato dinanzi al regime dei partiti. Se l’elezione di Pertini alla massima carica dello Stato doveva – nel disegno dei partiti – dare un sostegno alla solidarietà nazionale, nella realtà avvenne qualcosa di molto diverso, perché proprio allora incominciava la «fine dei partiti».
Nel passaggio cruciale tra gli anni Settanta e Ottanta, secondo la lettura di Gervasoni, esplodono due processi convergenti, la crisi della sovranità dello Stato (conseguentemente al processo di integrazione europea) e la crisi di legittimazione dei partiti. Ed è in questo quadro che il Quirinale trova un nuovo spazio d’azione. «La doppia crisi della sovranità e della legittimità dello Stato e dei partiti», scrive Gervasoni, «non poteva quindi che ricadere sul presidente in quanto vertice apicale dello Stato, ma anche in quanto garante politico della repubblica dei partiti. In questa fase, apertasi allora e a tutt’oggi non ancora conclusa, il presidente della repubblica cominciò a diventare la figura chiave della decisione politica dello stato di emergenza, un ruolo che i capi dello Stato in passato erano riusciti a esercitare solo a fasi alterne e comunque sempre in grande contrasto con i partiti» (p. 93). Le conseguenze della scelta di Pertini – giunta al sedicesimo scrutinio – si rivelarono ben presto molto diverse da quelle che i partiti si attendevano. Infatti, «Pertini intuì che, nel discredito del sistema dei partiti e nella crisi della loro legittimità, il presidente poteva ritagliarsi un ruolo ben specifico […] che passava per un’operazione simbolica, di comunicazione del verbo e dell’immagine del corpo del presidente in un legame diretto con i cittadini, senza la mediazione dei partiti e delle istituzioni» (p. 96). A Pertini riuscì infatti quell’operazione che Gronchi e Saragat avevano tentato senza successo, ossia di presentarsi – grazie all’utilizzo dei classici motivi populisti – come «il presidente degli italiani», contrapposto alla classe politica e ai partiti. E, benché le premesse iniziali fossero del tutto diverse, anche Cossiga percorse in seguito – dopo il 1989 – la medesima strada, conseguendo effetti molto diversi ma diventando comunque una sorta di tribuno in costante conflitto con il «regime dei partiti».
Dopo la presidenza di Cossiga, nella transizione verso la cosiddetta ‘seconda repubblica’, il quadro complessivo era destinato a mutare. In particolare, la ‘svolta maggioritaria’ – a dispetto dei risultati modesti sul piano della stabilità degli esecutivi – doveva assegnare al capo del governo una forza sconosciuta ai presidenti del consiglio della ‘prima Repubblica’, e questo non poteva non indebolire (teoricamente) il ruolo «frenante» del Quirinale. In realtà, però, nessuno dei presidenti succedutisi a partire dagli anni Novanta rinunciò effettivamente ai poteri di intervento, anche se naturalmente Scalfaro e Ciampi interpretarono la loro funzione in modi molto differenti. E proprio l’instabilità del bipolarismo doveva così consegnare, di fatto, uno spazio di manovra ancora più ampio al Quirinale. La forte personalizzazione era infatti destinata a generare un rapido logoramento della fiducia nei confronti del presidente del consiglio, mentre l’inquilino del Colle poteva contare sempre su livelli molto alti di consenso e fiducia. Ed era proprio questo ruolo di pivot politico che doveva emergere in modo evidente nel 2011, con la caduta del governo Berlusconi e la formazione del governo Monti. Come scrive a questo proposito Gervasoni: «Anche nella seconda repubblica lo scontro fra il capo dello Stato e i partiti non è cambiato, acquisendo anzi forme assai più destabilizzanti che nella prima. Una contraddizione che rischia di protrarsi, almeno fintantoché non si provveda a riformare la Costituzione negli articoli relativi ai poteri del capo dello Stato, così da renderlo politicamente responsabile, secondo il modello presidenziale o semipresidenziale; o finché non si giunga a modificare la forma della sua investitura e a introdurre l’elezione diretta del presidente, come avviene del resto in quasi tutti gli ordinamenti repubblicani europei» (p. 15).
A dispetto di questo richiamo, il libro di Gervasoni non intende proporre una revisione in senso ‘presidenzialista’ e ‘semi-presidenzialista’ della carta costituzionale. Più semplicemente, attraverso una ricostruzione storica punta a mostrare come il presidente della repubblica sia di fatto diventato un attore politico rilevante, come di fatto abbia sempre cercato di estendere il proprio ruolo ben oltre i confini del ‘notaio’ della Repubblica, e come sia spesso riuscito in questo compito puntando su due aspetti di cui è difficile negare la portata: da un lato, la crisi di legittimità dei partiti; dall’altro, la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica. Dal momento che è davvero poco plausibile l’ipotesi di un’inversione di entrambe queste tendenze, è piuttosto evidente che il quadro delineato da Gervasoni non è destinato a modificarsi. Certo, la personalizzazione e la spettacolarizzazione non producono sempre gli stessi risultati, e così è molto probabile che Sergio Mattarella non conoscerà mai la stessa popolarità di Pertini o dello stesso Napolitano (anche se è sempre difficile immaginare le traiettorie di un mandato lungo sette anni: il caso di Cossiga rimane sempre emblematico). Ma è comunque plausibile che il nuovo presidente non rinuncerà a quei poteri che i suoi predecessori hanno negli anni conquistato. E non è neppure da escludere che anche il nuovo inquilino del Colle non debba tornare a esercitare un ruolo significativo di pivot. Perché – è bene non dimenticarlo – nell’era della personalizzazione e della spettacolarizzazione, le leadership carismatiche, anche quelle apparentemente molto forti, poggiano su fondamenta fragilissime. E proprio per questo il presidente della repubblica può sempre tornare a rivestire quei panni di tribuno ‘impolitico’, che proprio Sandro Pertini seppe indossare probabilmente meglio di ogni altro, all’inizio di quella lunga «fine dei partiti» da cui non siamo mai davvero usciti.
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