di Angelica Stramazzi

I più speranzosi saranno rimasti delusi. Chi pensava ad una campagna elettorale improntata nel segno del confronto e del reciproco rispetto dovrà inevitabilmente ricredersi. Anche stavolta, le maggiori forze politiche in campo – che, guarda caso, sono poi le stesse delle trascorse tornate elettorali, con qualche piccola aggiunta, tanto per dare l’impressione (giusto quella) che ci si trovi dinanzi ad un tangibile segno di cambiamento – hanno deciso (o preferito) di optare per una modalità di relazione già ampiamente sperimentata, basata anzitutto sull’invettiva verbale, sull’accusa gratuita e sull’assenza quasi totale di contenuti. Che poi, in fin dei conti, dovrebbero essere i protagonisti indiscussi non solo del prossimo mese e mezzo che ci resta prima di recarci (di nuovo) alle urne, ma anche – e soprattutto – del prossimo futuro. Fino ad ora infatti, si è discusso molto di simboli, nomi, liste, coalizioni e squadre da comporre, relegando in secondo piano – si spera – la definizione precisa e puntuale delle ricette e delle cure che dovranno in qualche modo essere somministrate all’Italia. Domina piuttosto – ma vorremmo volentieri sbagliarci – la sensazione che il lasso temporale in cui ha agito il governo tecnico sia di fatto bastato per ripianare le maggiori criticità che, negli ultimi decenni, hanno caratterizzato il sistema-Paese: largo alla fantasia e alla versatilità politica, i partiti son tornati e si salvi chi può. Il livore che alcuni uomini politici hanno saputo mostrare nei confronti di Mario Monti, reo di essere “salito” in campo pur avendo, in precedenza, giurato che, una volta terminata l’esperienza dell’esecutivo tecnico, sarebbe tornato a svolgere il mestiere di accademico, dimostra l’incapacità dei partiti stessi, e di chi li rappresenta, di concepire la contesa politica come qualcosa di diverso rispetto ad una lotta fra bande, ad uno scontro che non conosce soste e battute d’arresto, e che invece prosegue lungo binari morti, senza alcuna direzione.

Nonostante queste nefandezze, e al netto di certi atteggiamenti non propriamente riconducibili a comportamenti che una personalità pubblica dovrebbe adottare, non pochi osservatori ripongono diverse speranze nella stagione che va profilandosi. E non si tratta del solito ottimismo che caratterizza in genere l’inizio di un nuovo anno: ad entusiasmare questa volta sarebbe la presenza di un uomo – Monti, giustappunto – che è stato in grado di salvare l’Italia dal default, di evitare che il nostro Paese facesse la medesima fine della Grecia e di far sì che l’Europa – e con essa tutti gli organismi di stampo sovranazionale – tornasse a guardarci (e a considerarci) per quello che, in fondo, realmente siamo: una nazione ricca di eccellenze, personalità illustri, ma soprattutto un popolo desideroso di non arrendersi. Anche di fronte alle più dure asperità. Ma se dinanzi ad un buon auspicio non ci si tira mai indietro – chi desidererebbe infatti, per il prossimo futuro, mesi di (ulteriore) incertezza economica, precarietà e disoccupazione alle stelle? – occorre essere un tantino realisti; e valutare – sempre meglio a priori, anziché a posteriori – che la presenza in campo del dimissionario Presidente del Consiglio non ha giovato – almeno fino ad ora – alla ristrutturazione del quadro politico, al netto di quanto è accaduto in casa Pd grazie alle primarie, che hanno assicurato un effettivo ricambio della classe dirigente, seppur parziale e non già complessivo. Percepire Mario Monti e la coalizione a lui riconducibile come una minaccia al sistema democratico e alla permanenza del bipolarismo in Italia pare non solo fuori luogo, ma quantomeno azzardato rispetto a chi, dopo un anno alla guida di un governo tecnico, può legittimamente presentare la propria offerta politica, scegliendo di sottoporre all’altrui giudizio le proposte politiche che ha in mente per risanare il Paese: spetterà poi all’elettorato decidere. Con il premio, o con una eventuale sanzione.

Se è dunque innegabile che la formazione di una compagine centrista abbia mandato in soffitta un pur fragile (ed instabile) accenno di assetto bipolare, resta il fatto che l’evoluzione di qualsivoglia quadro politico tiene conto non solo delle contingenze del momento, ma anche delle intenzioni – più o meno genuine – che le personalità politiche hanno in un determinato momento. Fermo restando che di volontà di cambiamento se ne percepisce francamente poca, nessuno avrebbe impedito ai partiti – anzi, tutt’altro – di imprimere una (vera) svolta, inaugurando un nuovo corso, volto principalmente al rinnovo dell’impalcatura istituzionale, senza trascurare la necessità di svecchiare un apparato statale e burocratico che pesa come un macigno sulle spalle del cittadino. A parole – si potrebbe obiettare – tutto può farsi: sono i risultati tangibili quelli che, alla fin fine, contano. Ma questa obiezione non può continuare ad essere utilizzata, dalle forze politiche e dai partiti che dominano la scena politica, come giustificativo delle mancate riforme: è ad essi infatti che il cittadino/elettore conferisce il compito di rappresentarlo nelle sedi istituzionali, trasferendo al contempo la capacità – che egli di fatto non ha – di incidere significativamente sul funzionamento della macchina statale, attuando al contempo i provvedimenti di cui il Paese necessita.

«Per una nuova fase costituente – ha scritto Danilo Breschi su queste colonne – ci voglio idee […] dal momento che le istituzioni sono ancora riempite ed animate da altri principi, idee vecchie, ormai logore ed esaurite». Mancano le idee, le intuizioni, le proposte. Ma soprattutto manca la volontà di far emergere il meglio che l’Italia offre e che potrebbe ulteriormente offrire: in primis, quella passione che ha animato in passato tante battaglie, numerose scoperte, altrettante invenzioni.