di Fabio Massimo Nicosia
Il problema del finanziamento dei partiti è giunto a un crocevia di non ritorno. Le recenti vicende ci dicono che avevano ragione i radicali, quando, ormai trent’anni fa, affermavano che il finanziamento pubblico sarebbe stato un elemento corruttivo della vita interna dei partiti, finanziandone i vertici, in modo da poter disporre in modo incontrollato di somme ingenti, che sono divenute ancora più tali dopo che al “finanziamento” si è sostituito il meccanismo dei cosiddetti rimborsi elettorali, e ciò a seguito di un referendum che, a quasi unanimità del popolo italiano, aveva spazzato via il vecchio finanziamento pubblico.
I partiti avevano pensato che eludere l’esito del finanziamento potesse avvenire senza pagare un dazio morale, ma la storia è capricciosa e, a distanza di tempo, trova il modo di vendicarsi.
Ormai la rivolta popolare contro la “casta” si è trasformata in diffusa antipolitica, e i partiti sono giunti al punto più basso della loro popolarità e credibilità.
A questo punto, l’unico argomento dei difensori del finanziamento pubblico, che merita di essere confutato, è che, in assenza di questo, solo i ricchi potrebbero fare politica, mentre la gente comune e i poveri si troverebbero senza rappresentanza.
Tale argomento, particolarmente caro alla sinistra, dimostra quanto questo schieramento si sia allontanato dalle proprie radici democratiche e libertarie, per trasformarsi in colosso burocratico e parassitario.
Va infatti ricordato che, a cavallo tra la fine del XIX secolo e il secolo scorso, sorsero numerose società di mutuo soccorso tra lavoratori, che costituivano di fatto un welfare spontaneo e non statalista, dimostrando che il lavoratore, se crede in qualcosa, è disponibile al sacrificio per metterlo in piedi. Il problema dei partiti di oggi è quindi di non essere disponibili a calarsi nel mercato, per porsi sopra di essi come un’invincibile armata che prescinde da ogni effettivo consenso (non quello del voto, ma quello del giorno per giorno) dei cittadini.
Ciò detto in linea generale, va confutata una variante dell’argomento considerato, e cioè che, in assenza di finanziamento pubblico, i partiti sarebbero in balia delle lobbies, come, si dice, accada negli USA. Ora, a parte che la differenza tra noi e gli USA non è che negli USA agiscano le lobbies e da noi no, ma che da noi lo fanno in modo più occulto e meno trasparente, proviamo a prendere il toro per le corna.
Orbene, noi sappiamo che a latere dei partiti vivono imprese legate politicamente a questo o a quel gruppo di potere. Ad esempio, è ben noto il collateralismo tra PD e cooperative ex rosse, che non avrebbe senso se non fossimo indotti a ritenere che il PD guadagni qualcosa da questo collateralismo. Oppure pensiamo al rapporto tra la formigoniana CL e la Compagnia delle opere, in particolare in Lombardia, dove sta scoppiando uno scandalo dietro l’altro nel settore della sanità. E allora, in un’ottica antiproibizionista, squarciamo il velo dell’ipocrisia, e avanziamo la proposta che i partiti possano legalmente e apertamente (a questo punto la trasparenza diviene un obbligo) farsi direttamente impresa, per raccogliere risorse sul mercato. Del resto, anche l’affermazione che solo i ricchi farebbero politica in assenza di finanziamento pubblico risulta confutata dalla vicenda di Berlusconi, che non ha certo mai rifiutato il finanziamento pubblico, tenendosi strette le sue ricchezze private.
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