di Antonio Campati
Un diffuso e sedimentato giudizio pubblico «contro» la politica e alcuni risultati delle recenti elezioni amministrative sembrano aver archiviato definitivamente qualsivoglia riflessione sulle élites nel (e del) nostro Paese. Termine ormai utilizzato solo con accezione negativa, nel linguaggio comune indica un gruppo ristretto di privilegiati che, insediati nel fortino della «casta» (non solo politica), vivono di rendite precostituite e inamovibili.
In realtà, un impulso così superficiale verso le élites è giustificato da diversi (buoni) motivi anche solo tenendo presenti le cronache degli ultimi anni; infatti, coloro che avrebbero dovuto realmente ‘guidare’ le organizzazioni politiche, le strutture statali, la società nel suo complesso hanno sovente abdicato al loro compito conducendoci, passivamente, nella condizione dell’«eterno presente». Certo, ci sono state e ci sono delle eccezioni, ma queste non hanno impedito alla profezia contenuta nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa di diventare una delle frasi a effetto più utilizzate per descrivere le vicende italiane.
Con simili premesse, la crescente protesta contro i partiti e le sue classi dirigenti, contro le istituzioni statali e i suoi rappresentanti (evocando inquietanti e dolorosi episodi passati) contro le leadership un tempo granitiche e «invincibili», non può che spingere verso forme di partecipazione «diretta» alla vita politica. Le uniche soluzioni praticabili sembrano essere quelle che vedono estromessa la classe politica, come se il mito della società civile non avesse già offerto delle cocenti delusioni anche nelle amministrazioni locali. Per riassumerla con un claim provocatorio e paradossale: per fare politica, tutto eccetto i politici.
Ad ogni modo, i sempre più numerosi indizi di insofferenza non possono essere derubricati a semplici conseguenze di un malessere più o meno diffuso verso i canali della rappresentanza politica. A maggior ragione se, come ha illustrato Carlo Galli (Il disagio della democrazia, Einaudi, 2011, pp. 93), la democrazia contemporanea ruota su due assi, quello del «disagio» e quello della «complessità», dove il primo è figlio dell’«adeguazione, rabbiosa o rassegnata, alla cattiva democrazia, alla sua pretesa necessità» (p. 80) e il secondo è un elemento indispensabile dell’età globale, ossia «lo stare insieme di libertà e democrazia, di forma e di lotta, di istituzione e di contestazione» (p. 87). Ma, per soffermarci solo sul primo asse, «la democrazia come necessità (o come naturalità) deve diventare democrazia come decisione, cioè come libera invenzione di forme politiche, benché transitorie e contingenti» (p. 83). E così, «una politica democratica attiva, oggi, si qualifica proprio attraverso il recuperare dalla storia della democrazia l’idea che essa non può essere solo un regime di massa, ma deve essere un regime di qualità umana; (…) che non può essere soltanto un effetto di potere iscritto nella sintassi del dominio, né la subalterna protesta contro di essa, ma una pratica di contropotere».
Ma cosa significa, più precisamente, che la democrazia deve essere regime di «qualità umana»? Anche per trovare risposta a un quesito tanto ostico, può essere utile soffermarsi sull’ultimo contributo che ci offre Carlo Galli, nel quale, a distanza di un anno rispetto al precedente lavoro appena ricordato, si concentra sul caso italiano e analizza la crisi delle sue élites (I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità, Laterza, 2012, pp. 126). Una ricerca, come chiarisce l’Autore, «a cui si risponde con un’analisi a ritroso volta a indagare con quale spirito e con quali capacità le élites sociali del nostro Paese si sono rapportate alla politica, e hanno interagito con le élites politiche» (p. X).
Infatti, nel primo capitolo, Galli sottolinea come una parte dei lettarati italiani (fra gli altri, Machiavelli, Leopardi, Manzoni, ma anche D’Annunzio, Prezzolini, Gadda) non abbia fatto a meno di un bagaglio di argomenti classici per collocarsi di fronte al potere. Un approccio affatto privo di rovesciamenti di prospettiva come avviene, per esempio, con l’Unità d’Italia quando le «cattive élites» precedenti hanno conosciuto un «rinnovamento culturale e politico» capace di allargarne gli orizzonti, ma insufficiente per impedire a nuovi gruppi di élites di essere «nazionali a parole e particolari di fatto» (pp. 11-12). Una condizione che ha prodotto un originario «iato fra l’universale e il particolare» proprio dentro le élites italiane che, sul finire dell’ottocento, non sono riluttanti al comando, bensì a «individuare una direzione di marcia progressiva», tanto da cogliere «l’entrata dell’Italia nella storia come occasione per restare signore della loro cronaca locale» (p. 16). Neppure dopo i primi decenni del nuovo secolo la situazione sembra cambiare; nonostante il fascismo, la «questione delle élites in Italia restava in ogni caso irrisolta» dal momento che il loro particolarismo trionfa, cementato dalla retorica della dittatura che, sempre secondo Galli, lo avrebbe presto elevato a «principio di diritto pubblico», perseguendo una politica in parte funzionale agli interessi delle élites tradizionali e in parte esterna a queste (pp. 41-42).
Nel secondo capitolo de I riluttanti si entra direttamente nel rapporto fra élites e democrazia transitando «dall’espressività alla scienza, dalle critiche mosse dai letterati ai politici al tema teorico più vasto, trattato da filosofi e politologi» (p. 43). E anche se l’idea dell’inadeguatezza di fondo delle élites permane, tuttavia si rintracciano particolari chiarimenti e più ardite articolazioni. Infatti, l’Autore identifica le origini del dibattito su chi debba gestire il potere – se i pochi o i molti – nell’opera di Platone che, però, diverge nella sostanza dall’anonima Costituzione degli Ateniesi la quale, circa settant’anni prima della Repubblica, sostiene la tradizionale tesi aristocratica che le élites esistono per natura e sono composte dai ‘nati bene’, i ‘migliori’. A sua volta, ricorda Galli, questa ricostruzione differisce da quella di Pericle che, nell’Epitaffio tucidideo, nota che la democrazia ateniese non riconosce élites naturali, ma alimenta le aristocrazie del merito individuale, dando spazio alla virtù (pp. 44-45).
Dobbiamo giungere nel pieno della democrazia moderna per riconoscere il governo non come espressione di una parte ma di tutti, perché tutti naturalmente uguali; per farlo è necessario costruire un «ordine politico artificiale» che – grazie alla rappresentanza politica – crea un ordine politico unitario, retto da una legge universale, ma fonte di una necessaria disuguaglianza: il rappresentante è superiore ai rappresentati, pur essendo legittimato da questi (p. 47). Non casualmente, proprio attorno a uno snodo così importante si sta focalizzando una parte del dibattito scientifico più recente, che tenta di rintracciare in esso le radici di alcune evidenti distorsioni nell’odierna teoria politica. E Galli, infatti, evidenzia un passaggio non scontato (per alcuni) fino a poco tempo fa: «il rappresentante non è migliore per natura, e la sua è una superiorità meramente funzionale: serve solo a far esistere l’ordine politico (ne è il trascendentale)». In altre parole, si legge qualche paragrafo dopo, «il potere può essere di parte in senso solo quantitativo, sulla base del principio maggioritario (…), ma non certo perché nel potere si esprima una presunta parte ‘migliore’» (p. 48).
A dispetto di ogni rilievo, le élites sono state lo snodo sociale, intellettuale e politico del progresso moderno, offrendo direzioni e stili, nonostante una certa ambiguità, ricorda Galli, fra i liberaldemocratici e le élites del Paese dal punto di vista del modello politico-istituzionale (p. 53). E sulla scia di alcune riflessioni di Alexis de Tocqueville e di John Stuart Mill, l’Autore evidenzia l’avanzamento dell’idea che le élites politiche devono rappresentare una necessità non transitoria ma permanente, non un difetto, anzi «un elemento indispensabile del governo della società» (p. 54). Una consapevolezza che emerge non solo dalle riflessioni di critici non anti-moderni della liberaldemocrazia, ma anche – seppur con opposto giudizio di valore – da uno scritto giovanile di Marx nel quale lo Stato era visto come espressione dell’alienazione umana e quindi, anche quello democratico, espressione universale di una parzialità, ovvero di élites sociali ed economiche che generano la forma-Stato (p. 55).
In un quadro siffatto, poi, non può mancare un puntuale riferimento agli autori classici dell’elitismo italiano che, nota bene Galli, offrono al pensiero politico internazionale i primi lavori sull’idea ‘scientifica’ della teoria delle élites che si presenta con una duplice origine: anzitutto, implica l’esistenza di élites anche dove, in teoria, non ci dovrebbero essere, cioè nella democrazia e nelle formazioni politiche di massa e, in secondo luogo, che il parlamento è una cattiva élites perché lo è solo di fatto, senza avere la cultura politica necessaria per respingere le teorie ugualitarie moderne su cui si fonda (p. 57).
Finalmente, solo mentre si giunge ad analizzare il pensiero di alcuni autori dell’«elitismo democratico», si rintraccia la conciliazione fra la teoria classica dell’élites e la democrazia pluralistica. Quando, in sostanza, si assume piena consapevolezza che le élites si formano anche in contesti democratici e quindi non sono esclusivamente monolitiche, ma anche intrinsecamente plurali e pronte a competere in libere elezioni e poi in parlamento. E così è possibile consentire un’autentica apertura al ricambio con elementi provenienti non solo dal suo interno e realizzare una «convivenza virtuosa fra popolo ed élites» (p. 73). Ma un quadro del genere, se da un lato conferma che non c’è nulla di anti-democratico nel riconoscere alle élites di avere avuto ruoli determinanti e utili in diversi tornanti della storia, dall’altro non può nascondere che le stesse possono essere «opache, fare cartello e non competizione, e bloccare quindi la società sotto un dominio oligarchico, (…) non essere in grado di cooptare forze nuove (…), operare all’interno di pre-condizionamenti strutturali anche non palesi» (p. 75).
Ad ogni modo, per tornare al quesito iniziale, qui si inserisce l’aspetto insidioso della ‘qualità’ delle élites; queste, infatti, sono si i pochi, ma «la loro determinazione non è solo quantitativa: i pochi devono avere specifiche qualità – non legate alla nascita – se vogliono essere autentiche élites sociali; e anche all’interno dei moderni sistemi democratici, in cui le élites politiche non possono non essere elette, se mancano di queste doti, o capacità, la politica ne soffre quanto a prestigio e quanto a efficacia» (p. 76). Un passaggio chiaro che deve necessariamente essere legato a una consapevolezza parallela: la «direzione – l’opera delle élites – è, insomma, un compito arduo, un dovere anche duro, non un facile e scontato privilegio» (p. 77).
Una così ben articolata ricostruzione ci conduce, infine, a guardare al di dentro le venture e sventure delle élites italiane, come recita il titolo dell’ultimo capitolo de I riluttanti. L’Autore, prima di argomentare un possibile «ritorno» delle élites con la nascita del Governo Monti, ripercorre i lineamenti di uno schema che si ripete formalmente nella nostra storia nazionale, ma che varia moltissimo nei contenuti (p. 85). In pratica, Galli ricostruisce il «ritmo costante» presente in Italia che si basa, in primo luogo, su una «grande decisione egemonica» (come il Risorgimento e la Resistenza) in grado di fondare una legittimità specifica, quindi un regime che si estende per circa mezzo secolo (monarchico-liberale, ciellenistico-democratico); questo, però, ha un funzionamento via via degradante con tempistiche e modalità diverse, ma al quale si risponde con delle forzature che concepiscono una nuova egemonia e una nuova instabile forma politica di circa vent’anni (come, pur nelle loro grandi differenze, il fascismo e il berlusconismo). L’influenza delle élites, però, varia: mentre nelle fasi ‘cinquantennali’ ricoprono un ruolo molto attivo (almeno in principio), in quelle ‘ventennali’ si tengono defilate rispetto alla politica, salvo poi tentare in extremis un recupero che può aprire nuovi scenari. Tutti i differenti periodi sono però accumunati, sempre nella ricostruzione di Galli, dalla presenza di un «fattore esterno» che li determina (l’appoggio anglo-francese per il Risorgimento, la prima guerra mondiale per il fascismo, il crollo del comunismo per la fine della Prima Repubblica, la crisi finanziaria per la chiusura, forse provvisoria, del berlusconismo).
Quindi, le pagine finali del saggio sono dedicate all’approfondimento degli ultimi decenni della storia italiana, dalla fine del secondo conflitto mondiale fino al governo Monti (anche se con prospettive che, precisa l’Autore, vanno ben oltre il governo attuale). E certamente non mancano riflessioni da approfondire, come l’accento sul «successo relativo» della Prima Repubblica basato su «un’esplicita superiorità della politica» e su «politiche lungimiranti di inclusione sociale» (p. 89), sorretto da élites che, seppur «largamente imperfette», erano almeno «consapevoli» del loro ruolo nella società e del rispettivo bagaglio di responsabilità. Situazione che muta radicalmente durante l’«era berlusconiana» dove proprio le élites rinunciano al peso della «libertà creatrice e del rigore disciplinato» per distinguersi – solo quantitativamente – dal popolo (p. 110). Ma il trionfo di questo tipo di élites certifica, allo stesso tempo, la loro abdicazione, rappresentando un fenomeno sociale diffuso e trasversale (p. 111). Infine – e siamo, ormai, ai giorni nostri – quando tutto portava a pensare che il ruolo delle élites dovesse essere superato (perché ormai non più distinto da semplici gruppi di privilegiati), ecco che davanti a un vincolo esterno minaccioso, tornano in primo piano per mettere in campo ciò che resta del loro prestigio (p. 123).
L’analisi, a questo punto, è ancora più appropriata poiché non solo mantiene come riferimento il «ritmo costante» sommariamente ricordato, ma chiarisce i due auspici che, se non seguiti, potrebbero certificare una nuova fase di «riluttanza»: oltre alla necessità di essere all’altezza del momento presente, le nuove élites devono far «ripartire l’Italia» – dimostrandosi realmente ‘classe dirigente’ – e «rinnovarsi», dando spazio a nuove élites emergenti.
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