di Alessandro Campi
Esiste il nepotismo nelle Università italiane? Ci sono casi, anche eclatanti, di figli che subentrano nelle cattedre che furono del padre o del nonno o che insegnano nelle loro stesse Facoltà o Dipartimenti? Certo, ed è un malcostume antico e spesso denunciato, ma non si capisce cosa tutto questo c’entri con la fuga dei cervelli e con il fatto che sempre più giovani studiosi italiani siano costretti a (oppure volontariamente decidano di, visto che siamo in un mondo globalizzato) trasferirsi all’estero per realizzare le loro ambizioni accademiche.
L’impressione, per dirla tutta, è che Raffaele Cantone – nel suo intervento dell’altro giorno all’Università di Firenze, che tanto clamore ha suscitato sulla stampa – abbia sollevato un tema reale per quanto mediaticamente abusato e gonfiato, quello del familismo baronale negli atenei italiani, facendo discendere da esso conseguenze improprie ed esagerate.
Dovrebbe far riflettere, per cominciare, il fatto che ogni volta che si parla della dilagante corruzione universitaria, si citano sempre gli stessi casi eclatanti e si fanno sempre gli stessi nomi: il clan Frati a Roma, il clan dei Tatarano e dei Massari in quel di Bari. Vicende ben note alle cronache, e assai biasimevoli, ma che tuttavia non rappresentano la normalità. Semmai la patologia di un mondo nel quale si accede con difficoltà e spesso non secondo merito, ma sulla base di appartenenze e filiere che però non sono primariamente parentali, ma semmai ideologico-politiche (ancora oggi, alla faccia delle fine delle ideologie) o più banalmente corporativo-disciplinari o meramente localistico-territoriali (il candidato del luogo è ormai sempre favorito rispetto al forestiero). Ma nel quale la stragrande maggioranza dei docenti – vogliamo dirlo in maniera chiara? – occupa il proprio posto in virtù delle proprie personali competenze scientifiche.
Per tornare alla fuga dei cervelli, causata secondo Cantone dalla corruzione dilagante e dal malaffare nei concorsi, essa in realtà dipende dalla miseria crescente dei fondi destinati in Italia alla ricerca e all’università. I laureati più brillanti e i dottori di ricerca se ne vanno all’estero semplicemente perché in Italia non si fanno più concorsi. Ovvero se ne fanno pochissimi, e quei pochi fortunati che entrano dei ranghi, dopo trafile estenuanti, spesso si debbono accontentare di quell’obbrobrio rappresentato dalla figura del “ricercatore a tempo determinato”: 3 anni più 3 di contratto col rischio dunque di trasformarsi in precari a vita. Non parliamo poi dei livelli retributivi, irriguardosi per persone che spesso accedono al ruolo avendo superato abbondantemente la trentina e avendo delle famiglie da mantenere.
Il problema è che l’Italia – intendendo i governi degli ultimi vent’anni di ogni colore politico – ha smesso di credere nel valore strategico della ricerca superiore e della formazione universitaria. Si è proceduto, anno dopo anno, ad un politica sconsiderata di tagli negli stanziamenti pubblici e i risultati sono quelli che oggi si vedono: una drastica riduzione degli studenti iscritti (solo in parte correlata con la decrescita demografica del Paese), una percentuale di laureati sul totale della popolazione tre le più basse d’Europa, una classe docente assai anziana e che non si riesce a rinnovare, un’età media d’ingresso nella professione accademica intorno ai 37 anni e, appunto, un numero crescente di ricercatori giovani che se ne va dall’Italia. Qualcosa significa se la Corea del Sud (dove certo non mancheranno casi di nepotismo accademico e favoritismi nei concorsi) destina alla ricerca il 4,05% e l’Italia solo l’1,27% (la media dei Paesi Ocse è del 2,83%). Questa non è corruzione o malcostume, ma colpevole mancanza di visione politica.
Viene anche da aggiungere che se i nostri giovani studiosi riescono così facilmente ad inserirsi nelle strutture accademiche internazionali è perché qualcuno li ha formati e preparati a dovere, non perché siano singolarmente dei fenomeni. E quel qualcuno è (in senso collettivo) quell’Università che nella rappresentazione mediatica di questi giorni si vorrebbe ridurre ad un generalizzato e riprovevole “tengo famiglia”. Nella fuga dei cervelli, indotta dalla penuria di risorse statali e dall’inconsistenza di un mercato privato della ricerca, l’aspetto più sgradevole è proprio questo: noi prepariamo i giovani, investendo ingenti risorse nei singoli percorsi formativi, per poi chiudergli le porte in faccia al momento del loro inserimento professionale e regalarli così belli e pronti alla Gran Bretagna, alla Francia o magari alla Cina e alla Finlandia. Non è anche questa una forma di danno erariale che però nessuno ha ancora contestato allo Stato italiano?
La denuncia a scadenze fisse delle parentopoli universitarie, nell’Italia che odia le élite professionali d’ogni tipo e che sembra preferire la delegittimazione pubblica di intere categorie sociali alle persecuzione delle colpe individuali, fa effetto e si vende mediaticamente bene. Va nell’onda dell’antipolitica e della messa alla berlina delle caste d’ogni tipo. Ma oltre a gettare sull’Università più fango di quanto non meriti, poco serve per capire i mali e i problemi che davvero l’affliggono. Peccato, perché una discussione pubblica e non scandalistica sul futuro dell’Università italiana sarebbe invece quanto mai necessaria e utile.
* Articolo apparso su “Il Messaggero” del 25 settembre 2016.
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