di Alessandro Campi
Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del populismo.
Il concetto l’ha di recente espresso Mario Monti, talmente preoccupato dal montare nel continente di movimenti e di un sentimento collettivo ostili all’euro da convocare a Roma un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo europei, il cui obiettivo dovrebbe essere proprio quello di porre un argine al fenomeno.
La frase – ricalcata sul celebre incipit del “Manifesto” marxiano – in questi giorni l’hanno invece scritta e ripetuta parecchi opinionisti ed osservatori, anch’essi evidentemente preoccupati dal consenso crescente di cui sembrano godere tutti quei leader politici che dell’estremismo verbale, della denuncia del professionismo politico e di una propaganda che spesso si nutre di demagogia, risentimento sociale e paura del prossimo hanno fatto la loro fortunata ricetta elettorale.
In realtà, a voler essere equilibrati sul piano dell’analisi e non allarmistici per partito preso, gli spettri che da qualche tempo tolgono il sonno – politicamente parlando – al Vecchio Continente sono almeno due. Il populismo, certamente, biasimato da una ricca e accreditata letteratura scientifica. E la tecnocrazia, la cui denuncia viene invece considerata un segno di arretratezza intellettuale, confusa con la paranoia complottista e derubricata a polemica sterile.
La cosa curiosa è che i due spettri, inconsapevolmente ma non troppo, si alimentano a vicenda: l’accusa che reciprocamente si rivolgono è infatti di volere la morte della politica e di perseguire un disegno sociale perverso. Soprattutto sembrano avere un nemico comune, anche se mai espressamente dichiarato come tale: la democrazia e le sue non sempre perfette architetture istituzionali.
Il populismo, con ogni evidenza, la minaccia dal basso, nel nome di un demos assunto come un aggregato informe o come un blocco socialmente omogeneo, invocato come riserva profonda di virtù e valori morali (in contrapposizione a classi politiche giudicate come intrinsecamente corrotte e incapaci) e accreditato come sorgente di ogni potere che si pretenda legittimo e autentico (il popolo coincide con la volontà generale e dunque con la verità e il bene). Al populista la democrazia rappresentativa, basata sulla mediazione parlamentare e sull’esistenza di filtri organizzativi (i partiti, i sindacati) tra elettori e governanti, non piace: vuole la democrazia pura e perfetta, diretta e priva di gerarchie. “Uno vale uno”, come sostengono a gran voce i grillini, che del populismo oggi tanto biasimato sono, almeno in Italia, l’espressione forse più coerente.
La tecnocrazia minaccia invece la democrazia dall’alto, nel nome della competenza (per definizione riservata a pochi), dell’efficienza e della risolutezza. Per il tecnocrate la democrazia rappresentativa, basata sulla mediazione degli interessi e dunque fatalmente sulla discussione e sul compromesso, rappresenta un anacronismo storico-istituzionale: è scarsamente funzionale e vittima del pluralismo sociale che ne rappresenta il fondamento materiale. “Uno vale per tutti”, come pensano, ma senza dirlo apertamente, coloro che nei pronunciamenti elettorali vedono non un grande rito politico collettivo, fondante per la vita di una comunità, ma una formalità da assolvere, tanto noiosa quanto inutile. Se il governo lo sceglie il popolo, il potere lo esercitano i pochi che lo detengono senza doverne rispondere politicamente a nessuno.
Il populismo – stando a molti dei suoi rappresentanti politici attivi oggi sulla scena europea – presenta tratti in effetti inquietanti, specie quando esso sconfina nella xenofobia a sfondo etnicista e nell’uso di un linguaggio aggressivo e violento. Ma esprimere perplessità sulle modalità con cui si sta realizzando l’unificazione europea, criticare l’euro o le tecnostrutture di Bruxelles, chiedere di sottoporre a referendum ogni scelta che implichi una cessione di sovranità nazionale, sospettare della buona fede e magari anche della competenza di banchieri e burocrati, mettere in guardia contro la crescente irrilevanza della politica rispetto all’economia e alla finanza: tutto ciò non basta per essere classificati tra coloro che non rispettano le regole del vivere civile, che urlano politicamente al vento o che marciano contro il senso della storia. Viene il sospetto che l’etichetta di populista venga ormai utilizzata un po’ troppo a sproposito, con intenti liquidatori nei confronti dell’avversario, un po’ come l’epiteto fascista nel passato.
In ogni caso, non è meno inquietante l’idea – tipica delle èlite tecnocratiche cui alcuni vorrebbero affidare il governo del mondo – che il voto dei cittadini sia un puro formalismo, che gli Stati nazionali siano un freno allo sviluppo di relazioni sociali più pacifiche e di un’economia mondiale più prospera e che le decisioni politiche, per essere efficaci, debbano obbedire soltanto a criteri tecnico-amministrativi. Così come inquieta che a decidere sulle nostre vite siano sempre più spesso persone di cui non conosciamo né il nome né il voto.
Se il populismo, come dicono i suoi critici, esprime soltanto uno spirito di protesta, è un modo per dare corpo ai rancori che sono al fondo di ogni società, il che significa che non offre alcuna risposta ai problemi del vivere associato, la prospettiva oggi alla moda di un governo dei tecnici, inteso come l’unico che possa assicurare onestà e competenza, è a sua volta una risposta sbagliata e al dunque persino pericolosamente illusoria. Come diceva Pareto, “Si può peccare per ignoranza, ma si può anche peccare per interesse. La competenza tecnica può evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo”. Vista la cattiva pasta con cui sono fatti gli uomini, cosa impedisce ai tecnici di abusare del potere che detengono? E cosa ci garantisce circa la loro effettiva neutralità nel giudicare e nel decidere e la loro effettiva superiorità morale?
Ma non basta. Che le democrazie siano intrinsecamente oligarchiche, noi italiani lo abbiamo spiegato al resto del mondo, quando ancora esisteva in questo Paese un’autonoma e rispettata scuola di pensiero politico. Ma un conto sono le oligarchie scelte volontariamente dai cittadini o sottoposte periodicamente al giudizio di questi ultimi. Altro è l’idea di una ristretta minoranza che risponde solo a se stessa e che tende a mantenersi perpetuamente al vertice della piramide politico-sociale pur non disponendo di una base di consenso o di una qualche forma di legittimazione popolare. Il presupposto normativo della democrazia è che i cittadini abbiano la competenza necessaria a giudicare sugli affari pubblici che li riguardano. È forse giunto il momento di lasciarsi alle spalle una simile concezione dell’ordine politico?
Va bene dunque un simposio sul pericolo del populismo, ma perché non organizzarne uno speculare sul rischio che la democrazia venga sempre più sacrificata, in Italia come nel resto d’Europa, al mito del “governo dei guardiani”?
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