di Danilo Breschi

Il problema – rispetto all’impostazione seguita da Giuseppe Balistreri nel suo intervento su questo sito – è ben più grave e difficile di quello della fuoriuscita dalla Seconda Repubblica, stagione politica di transizione mai conclusa e mai tradottasi in un concreto e stabile sistema istituzionale. Il problema è uscire dalla nostra storia nazionale unitaria, che ci ha fatto così come siamo oggi e come resteremo a causa della fortissima vischiosità insita in tradizioni diventate istituzioni.

Lo spiega bene Sabino Cassese nel suo ultimo saggio, intitolato L’Italia: una società senza Stato? (il Mulino, 2011). Per lo studioso, ex ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi e oggi giudice della Corte costituzionale, vi sono almeno otto caratteri costanti nella storia politico-istituzionale dell’Italia, dall’Unità ad oggi:

1. una costituzionalizzazione debole, perché lo Statuto era una costituzione tipica di un regime oligarchico e perché la carta del 1948 è stata inapplicata in troppe parti per troppo tempo, oltre ad essere stata poi imbalsamata nella sua seconda parte, che invece necessiterebbe di aggiornamenti e modifiche.

2. il distacco tra società e Stato (Paese reale vs. Paese legale; cittadini vs. autorità).

3. scarsa integrazione sulla base dei criteri generali e astratti, ma universalistici, della cittadinanza e prevalenza dei legami familiari e “familistici”, cioè naturali e tradizionali; dunque penuria di “capitale sociale”.

4. giuridicità debole per via di una consuetudine legislativa, iniziata sin da subito, di tipo derogatorio.

5. instabilità degli esecutivi (circa 125 governi in 150 anni; e si tenga conto del ventennio fascista…!).

6. “porosità” dello Stato, ovvero «sua natura intrinsecamente corporativa, sua incapacità di rendersi autonomo rispetto agli interessi costituiti, quelli economici e quelli elettorali, penetrazione di questi ultimi nella macchina statale».

7. l’assenza di una “noblesse d’Etat” a causa di una proliferazione della classe politica e dei suoi criteri di selezione che hanno condizionato lo sviluppo della burocrazia statale; «la crescita e la contemporanea meridionalizzazione della funzione pubblica comportarono una perdita di “rappresentatività” della burocrazia, nel senso che questa non proveniva in maniera equilibrata dalle varie parti del Paese».

8. “la fuga dallo Stato”: per Cassese il centralismo italico, «con ciò che vi è connesso (uniformità e autoritarismo), è un grande mito polemico»; se si guarda infatti al rapporto tra centro e periferia e ai diversi equilibri prodottisi nel corso di centocinquant’anni il mito si scioglie come neve al sole per scoprire che, «dopo l’unificazione, i poteri locali amministravano un terzo circa della spesa complessiva, una quota superiore a quella delle amministrazioni locali nel Paese preso a modello del self-government, il Regno unito». Tra i vari indicatori vi era ed è anche quello dell’impiego pubblico: «gli addetti degli enti locali erano, dopo l’unificazione, superiori in numero a quelli dello Stato». Quanti siano oggi è noto a tutti, e persiste come uno dei punti deboli su cui si è costruito il deficit pubblico odierno.

Proprio quest’ultimo, il debito pubblico, spauracchio e causa di molti dei mali italiani odierni, e bersaglio della speculazione finanziaria internazionale, conferma quanto ogni speranza di fuoriuscita dallo stato di crisi interno sia davvero appesa ad un filo. Il debito è infatti il frutto del nostro comportamento passato, ossia delle scelte e delle non-scelte fatte dagli italiani presi nel loro insieme come comunità nazionale. Il debito di oggi è figlio e nipote di politiche pubbliche e private delle due generazioni precedenti a quella che oggi stenta ad entrare nella cabina di regia della politica e dell’economia nazionali. Politiche pubbliche sempre e comunque “consentite”, cioè approvate nella forma e nella sostanza dai cittadini-elettori nel corso degli ultimi quarant’anni. Ognuno ha avuto la propria convenienza. Tutti, o quasi, si sono arricchiti e hanno costruito il proprio benessere sul deficit spending senza vincoli, e quindi irresponsabile, dei governi della cosiddetta “Prima Repubblica”. Per non parlare del finanziamento del debito statale tramite i titoli di Stato, Bot e Cct, o dei baby pensionamenti, o di un’evasione fiscale che se è cresciuta a dismisura negli anni vuol anche dire che non ha trovato per troppo tempo ostacoli materiali e obiezioni culturali sufficienti. Correre ai ripari può funzionare se e quando si è ancora in tempo. Resta da chiedersi se non si sia già fuori tempo massimo, e non solo per la questione dell’evasione fiscale diffusa, ma soprattutto per il tema del civismo.

Sempre Cassese sottolinea come «il tipo italiano di State building ha consentito la ricomparsa periodica di tratti scomparsi nella storia evolutiva, cioè l’atavismo». Caratteristiche presenti nella tradizione ritornano se il processo di unificazione, dopo un biennio “miracoloso”, quello del 1859-1860, che diede in mano a Cavour e Vittorio Emanuele II un’intera (o quasi) penisola a loro per lo più ignota e allarmante, ha obbligato le classi politiche italiane, sin dai tempi della cosiddetta Destra storica, ad operare rinvii, costruzioni giuridiche e legislative parziali, introdotte all’insegna della provvisorietà e della deroga alla norma generale, e dunque non vi sono mai state le condizioni che hanno consentito l’edificazione di uno Stato veramente unitario e uniforme. Come è noto, inizialmente «si procedette per ampliamenti della legislazione piemontese e per sovrapposizioni. Successivamente – ricorda sempre Cassese – si è fatto convivere lo Statuto del 1848 con il passaggio da un regime oligarchico a uno liberale-democratico, a uno autoritario». E prosegue rimarcando come «il fascismo, che pure proclamò di voler costruire uno Stato nuovo, modificò solo l’essenziale di quello liberale, spesso riscoprendone le radici illiberali».

L’atavismo è facilmente rintracciabile nel familismo radicato e diffuso in ampie aree della società italiana, un’attitudine trasmessa di generazione in generazione all’interno delle mura familiari e anche in contesti non privati e «che si riflette nel rifiuto di alcune delle regole più consolidate dello Stato, come quelle che riguardano l’accesso agli uffici sulla base del merito, in condizioni di eguaglianza».

Se poi correre ai ripari fosse ancora possibile, ciò andrebbe fatto con misura ed “equità”, quella parola che oggi viene sbandierata con troppo disinvoltura da una ristretta élite che, se anche fosse effettivamente disposta a recuperare un “bene pubblico” troppo a lungo maltrattato e strumentalizzato a fini di parte, deve dimostrare di non essere una componente mascherata di quella stessa classe dirigente, passata e presente, che tante responsabilità ha nella crisi italiana attuale. Diciamo “dirigente” per segnalare come la classe politica sia solo la parte più esposta e visibile di un’oligarchia che abbraccia tutti i gangli del sistema politico, economico e mediatico nazionale.

Le parole hanno un significato e una credibilità, ossia corrispondono perfettamente a quel che si afferma di loro sul vocabolario, solo e soltanto se i fatti non le smentiscono. La tassazione attuale, le sue percentuali vertiginose (pressione fiscale ad oltre il 50% del Pil) raggiunte anche per effetto di monopoli e oligopoli mai sfiorati dalle tanto evocate “liberalizzazioni” (vedi benzina e assicurazioni automobilistiche), la loro sperequata distribuzione tra le classi sociali e le categorie professionali del nostro Paese, rendono vano e irritante ogni futuro comizio o discorso televisivo di qualsiasi leader, o non-leader, di partito, vecchio o nuovo che sia.

Il governo dei tecnici è l’ultima spiaggia di una democrazia italiana che sconta molti atavismi, una debole costituzionalizzazione della società e culture politiche da sempre avverse al senso delle istituzioni e delle autorità. Gli appelli di Napolitano e Monti al riscatto e all’orgoglio nazionali scontano e sconteranno anche questo: la carenza di un liberalismo sociale che andrebbe diffuso a livello di élite come di massa, un tipo di liberalismo sempre osteggiato dalle famiglie ideologiche dominanti nell’Italia del secondo Novecento (social-comunismo e cattolicesimo politico) e un sistema dell’istruzione pubblica, superiore e universitaria, martoriato dall’antimeritocrazia e da un egualitarismo astratto e ipocrita, perché funzionale al trito e ritrito clientelismo nostrano. O ricostruiremo dalle fondamenta, e ripartiremo quindi dalla formazione, o meglio: dall’educazione, delle giovani generazioni, e da una partecipazione attiva e severamente critica alla politica locale, oppure anche le più flebili speranze di rigenerazione andranno perdute. Certo il realismo storico e antropologico ci dice che l’impresa non è ardua, è quasi impossibile. Anche perché dobbiamo ammetterlo: difficile per chiunque sentirsi tra coloro che possono “scagliare la prima pietra”, dal momento che il sistema familistico-clientelare e l’attitudine anarco-individualistica è così radicata nella nostra peculiare condizione di cittadini italiani, è abito così tradizionale da confondersi ormai con la nostra pelle. E scorticarsi non è facile, come cambiare identità, e non solo sulla carta. Se di “Risorgimento” ce n’è mai stato bisogno dopo che si compì con l’indipendenza nazionale, se mai quella parola di sapore religioso e quasi mistico, che per un comune mortale è più simile alla metànoia cristiana, ha avuto un senso, forse è proprio ora, a centocinquant’anni dall’Unità, che quel bisogno preme e si fa urgente. Forse le sfide che l’Europa e il mondo globalizzato ci impongono, e imporranno sempre più, innescheranno metamorfosi impensate.

Commenti (6)

  • Simone Ros
    Simone Ros
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    più che uscire dalla Seconda Repubblica qui si parla di una rivoluzione copernicana dell'”ethos” italico..la vedo dura, se non impossibile. Al massimo si potrebbe discutere se la parentesi montiana sia o no l’antefatto di una “Terza Repubblica” in cui i partiti cercheranno nuove forme di legittimazione (vedere l’intervento, durissimo, di Ignazi sull’Espresso), in cui il bipartitismo “muscolare” dell’epoca berlusconiana si tradurrà in una germanica “Grosse Koalition” o addirittura in un mirabile tripolarismo..

  • Danilo Breschi
    Danilo Breschi
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    hai ragione Simone Ros: è proprio dell’impossibilità sostanziale di “riformare” che intendevo parlare, che poi si parli di politica o di “ethos” (preferisco “antropologia culturale”, e non mi riferisco certo alla disciplina di studio) non credo che i due termini vadano pensati come differenti né tantomeno disgiunti. Le istituzioni sono sempre comportamenti e criteri di condotta consolidatisi nel tempo fino a diventare ingrediente stabile del nostro latte materno di cittadini… è almeno dai primi anni Ottanta che si parla di riforme istituzionali. Ripeto: dai primi anni Ottanta… c’erano ancora i Muppet Show in tv…

  • Marco Zag
    Marco Zag
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    Sarebbe interessante riflettere anche sulle origini degli otto caratteri individuati da Cassese. Al riguardo mi sembra condivisibile l’interpretazione di Galli della Loggia: “la mancanza nella dimensione italiana della dimensione dell’assolutismo”. Scrive i Galli della Loggia in Pensare l’Italia “Tranne il caso di Venezia e della monarchia sabauda, nella penisola abbiamo avuto per moltissimo tempo poteri deboli, piccoli, lontani, privi di grandi ambizioni geopolitiche, quindi non bisognosi di risorse finanziarie e umane da estrarre dai propri stati, e anche perciò inclini a un certo qual complessivo lassismo nei confronti dei propri sudditi […] Per tutto questo insieme di fattori queste masse hanno potuto sottrarsi per lungo tempo a quella penetrante azione formatrice, a quella serie di obblighi indeclinabili e a quella vincolante obbligazione politica verso lo Stato che sono all’origine del senso civico diffuso in tanta parte dell’Europa” (p. 100). In queste frasi ritrovo le radici di almeno cinque degli otto caratteri indicati da Cassese.

    Se è così, i secoli perduti dell’assolutismo non ce li restituisce più nessuno. Purtroppo non mi sembra che le sfide del mondo attuale stiano provocando particolari reazioni: da più di 40 giorni abbiamo due soldati, organi dello Stato italiano, detenuti nelle carceri di un altro Paese. Cosa ancor più grave, la gente comune non sembra percepire la gravità della vicenda. Forse anche questo è da ricollegare alla scarsa percezione che vi è in Italia dell’autorità dello Stato.

  • Simone Ros
    Simone Ros
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    non so perchè ma mi viene in mente la campagna pubblicitaria nelle stazioni italiane di Stefania Craxi, fresca transfuga dal Pdl, in nome degli ennesimi presunti “riformisti italiani”. Se non ricordo male il suo nuovo cavallo di battaglia è una vecchia bozza del padre Bettino riguardante una virata presidenzialista della forma di governo italica…è davvero questa la terza repubblica che ci aspetta? Io ai tempi di Bettino non ero nemmeno nato…

  • Danilo Breschi
    Danilo Breschi
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    buon per te, Simone Ros, che non eri nemmeno nato ai tempi di Bettino! Io non sono, credo, troppo più vecchio, ma le classi (presunte) dirigenti italiane, e quella politica in testa, sono riuscite a far sì che a poco più di quarant’anni avverta già tutta l’inanità di qualsiasi discorso pubblico che rimetta in campo per l’ennesima volta il tema delle “riforme istituzionali”. Non certo perché non siano necessarie. Eccome se lo sarebbero, ma si faranno mai in un modo serio, profondo, davvero “costituente” e “pertinente” ai reali deficit del nostro sistema politico-istituzionale, senza grida d’allarme ingiustificate per violazioni di tabù passati e senza “novitismi” (per dirla con Sartori) che sono solo la parodia di un autentico rinnovamento?
    E, detto ciò, l’azione sulle istituzioni sarà mai sufficiente a sradicare pessime abitudini e costumi sociali e politici che abbiamo contratto come cittadini di uno Stato ora troppo presente, per certe cose, ora troppo leggero, per altre? abitudini e costumi che abbiamo soprattutto contratto ogni volta che siamo cittadini che interagiscono con le pubbliche autorità oppure ogni volta che entriamo dentro e proviamo a scalare fino alle vette dei pubblici poteri? Mi riferisco, per fare un solo esempio, alla logica clientelare, propria di uno Stato (a lungo) mastodontico sotto il profilo delle proprietà pubbliche e delle possibilità di spesa e al contempo così “poroso” da essere “partitizzato”.
    E’ stato sufficiente a iniettarmi questo disincanto il crescere e vivere in Italia, con qualche barlume di consapevolezza sociale e politica, dai primi anni Ottanta al 2012 (negli anni Settanta percepivo poco più che Goldrake…). Eppure, da docente appassionato del proprio mestiere, spero ogni volta nelle nuove generazioni che hanno possibilità di studiare. Certo, dipende da chi insegna, da come insegna, da chi gestisce e dirige le strutture scolastiche, nonché dal peso che ancora si vuol dare allo studio e alla promozione sociale delle scienze storiche, politiche e sociali… alle discipline che orientano ad un pensiero tanto critico quanto costruttivo.
    I giovani, comunque, hanno ancora, per qualche anno della loro vita, un tasso di “immunità” da patologie sociali maggiore di quello di chi è più cresciuto e inserito nel mondo del lavoro.
    Deformazione professionale, probabilmente, mi fa dire che l’ambito dell’educazione è quello su cui si può ancora nutrire qualche speranza o illusione, e su cui le discussioni mi sembrerebbero meno vane. Ma bisognerebbe andare oltre le parole d’ordine, anche qui, delle “riforme” e dell'”aggiornamento” del sistema educativo e modificare mode e pregiudizi invalsi nel mondo della scuola e dell’insegnamento. E le famiglie dovrebbero pretendere (e sostenere) una scuola sia accogliente sia selettiva, che promuova lo stimolo a migliorarsi, con l’impegno e la determinazione. Non sarà mai una “rivoluzione copernicana”, e sarebbe in malafede chi la prospettasse, ma un argine al nichilismo e alla stagnazione intellettuale e morale, questo forse sì.

  • Danilo Breschi
    Danilo Breschi
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    caro Marco Zag,
    quanto alla tua osservazione, che prende spunto da Galli della Loggia, circa la mancanza prolungata e nei tempi dovuti (ossia in sincronia con le altre principali monarchie nazionali europee) di una fase assolutistica nella nostra storia politica e istituzionale, sono pienamente d’accordo.
    Forse una delle principali differenze tra Stato italiano e Stato germanico, entrambi “late-comer” nel processo di State-building europeo, risiede proprio nel fatto che l’area germanica ebbe almeno dalla seconda metà del XVIII secolo in poi un decisivo centro catalizzatore nello Stato prussiano, esperimento di assolutismo che alcuni philosophes definirono persino “illuminato”, ossia riformatore, comunque interventista, proprio nel senso da te (e Galli della Loggia) indicato.
    In questo senso, istituzioni politiche introdotte e consolidatesi tempestivamente (non fuori tempo massimo, ossia in asincronia con il resto d’Europa) avrebbero potuto “formare” costumi e tradizioni civiche diverse, modificando significativamente quelle preesistenti. Ipotesi convincente su cui riflettere e studiare. Grazie!

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