di Chiara Moroni
Uscire dalla Seconda Repubblica: perché non sia solo uno slogan, per quanto di sicuro appeal e di facile utilizzo propagandistico, ma una vera opportunità per il nostro Paese di superare l’immobilismo generale che lo caratterizza, è necessario che il primo indispensabile cambiamento sia di ordine culturale. Infatti, le innovazioni necessarie a livello istituzionale (forma di governo, composizione parlamentare, legge elettorale e, più in generale, sistemi di distribuzione del potere), che molti osservatori indicano come indispensabili per aprire una nuova stagione politica e sociale, non possono prendere forma in modo razionale e organico – e la storia degli ultimi vent’anni lo dimostra con il suo bagaglio di promesse di innovazione e modernizzazione disattese e fallite – se prima il soggetto che le deve condurre, la politica, e quello che le deve legittimare, la società civile, non accettano di eliminare alcune delle caratteristiche culturali negative e involute che ne hanno dominato storicamente l’azione e la prospettiva.
Lo scollamento evidente tra il sistema politico e quello sociale e la crescente incapacità del primo di leggere e governare i cambiamenti e le esigenze del secondo, alimentano la diffusione del sentimento di antipolitica, che si esprime soprattutto come convinzione dell’inutilità e della natura parassitaria di un’élite e di un sistema politico che non sono più in grado o non vogliono assumere la responsabilità pubblica che compete loro. Il concetto di responsabilità è intimamente connesso a quell’etica della politica che Max Weber non a caso ha definito “etica della responsabilità” intesa come vocazione naturale della politica a valutare il rapporto mezzi-fini e le relative conseguenze. Senza assumere principi assoluti, l’etica della responsabilità agisce tenendo sempre presenti le conseguenze del proprio agire e assumendone la relativa responsabilità.
Oggi la politica italiana, dopo aver demandato le proprie funzioni a un governo cosiddetto tecnico, proprio a causa di questa irriducibile incapacità di prendere decisione e assumere responsabilità, fatica anche a rimanere presente e attiva nel dibattito pubblico: non solo non agisce, ma non riesce neanche ad elaborare prospettive e proposte credibili da far pesare sia sull’opinione pubblica, sia sui decisori pubblici.
Questa forma di autoimposta latitanza della politica dalla sfera pubblica non può durare a lungo perché un sistema democratico per essere tale e per funzionare non può fare a meno della politica, pena il controllo della cosa pubblica da parte di altri poteri, meno legittimati e soprattutto non rappresentativi, come ad esempio quello economico-finanziario.
Proprio per la radicalità negativa della situazione in cui versa il nostro sistema politico è necessaria innanzitutto una sorta di rivoluzione culturale di cui vi sia consapevolezza all’interno del sistema stesso e che solo successivamente potrà produrre innovazioni organizzative e fattuali efficaci perché consapevoli e ponderate.
La politica deve quindi riappropriarsi dell’etica della responsabilità che le è naturalmente propria, riassegnando il giusto valore alle scelte ideali e di governo. Solo così essa potrà riacquistare credibilità e legittimità, dimostrandosi indispensabile elemento di un sistema democratico nonché fonte (potenziale) del miglior governo possibile della cosa pubblica.
Si tratta di definire un nuovo patto tra sistema politico e società civile basato sulla proposta di una politica ispirata alle idee e alla progettualità e non sterilmente fondata sui tatticismi politici di breve periodo.
Come spingere una classe politica fin qui sempre uguale a se stessa – che continua a uscire dai cambiamenti anche epocali che la storia le prospetta rimescolata nelle appartenenze ma mai davvero rinnovata negli ideali e nella prassi – ad autoimporsi una vera rivoluzione culturale che la condurrà a farsi promotrice di quei cambiamenti istituzionali di cui il Paese necessita?
La risposta va ricercata in un altrettanto rivoluzionario cambiamento culturale che si deve realizzare nella società civile. Infatti, per quanto la politica italiana sia dotata di un’autonoma e originale capacità di deteriorare le proprie forme di espressione e azione, essa rappresenta comunque lo specchio di almeno una parte della società civile.
I “difetti” antropologici del popolo italiano sono noti; essi hanno un’origine storica e una radice culturale profondamente intrise di quell’italianità che troppo spesso rappresenta un limite piuttosto che una ricchezza. È vero però che, seppur così tanto parte integrante della cultura civile, tali limiti non sono inevitabilmente universali e la situazione in cui si trova oggi la società italiana può rappresentare la giusta scintilla che le permetta di scrollarsi di dosso atteggiamenti e convinzioni tanto limitanti. Una scintilla, come si diceva, culturalmente rivoluzionaria che a sua volta sappia imporre al sistema politico, finalmente, un vero cambiamento.
Tra i mutamenti necessari alla società italiana vanno promossi, in prima istanza, quelli che la renderebbero una società civile più consapevolmente tale:
– rinunciare ad affidarsi ad un “capo salvifico” – un leader che sembra sollevare i cittadini dalle responsabilità che derivano dal ruolo pubblico e collettivo che rivestono nella sfera pubblica – per attribuire la giusta legittimità, neutrale e universale, allo Stato e al sistema istituzionale;
– abbandonare l’atteggiamento privatistico e familistico, e le relative cattive pratiche, per recuperare il doveroso senso della comunità in quanto ricchezza individuale e collettiva;
– partecipare in modo attivo e consapevole alla vita pubblica attraverso le numerose forme di partecipazione, di cui il voto è solo la più elementare, riacquistando in tal modo il pieno utilizzo di quel potere che il sistema democratico assegna ai cittadini: concedere o ritirare consenso e quindi legittimazione alle forze politiche in campo, costringendole così a mutare se stesse e le proprie prospettive ideali e programmatiche.
Come è noto il termine politica deriva dall’aggettivo di polis (politikos) che in origine definisce tutto ciò che si riferisce alla città e quindi al tempo stesso significa cittadino, civile, pubblico ed anche socievole e sociale. Originariamente, quindi, il termine politica ricomprendeva, simbolicamente e semanticamente, sia l’esercizio del potere sia la società sulla quale legittimamente quel potere veniva esercitato. In età moderna, tale significato si è scisso creando due sfere separate che però sembrano aver assunto una distanza reciproca tale da produrre conseguenze negative sulla stessa sopravvivenza del sistema.
Forse la vera rivoluzione culturale, che qui si auspica come necessaria premessa alle trasformazioni politiche e istituzionali, potrebbe trovare linfa vitale nel tornare ad ispirarsi idealmente a quella unità di governo e società espressa dal significato originale del termine politica.
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