di Alessandro Campi

Da ieri è ufficiale: osservatori politici e analisti economici internazionali si sono convinti, sulla base delle ricerche che hanno commissionato e dello studio dei dati disponibili, che dal prossimo voto nazionale non uscirà un quadro parlamentare solido e chiaro, che possa a sua volta favorire il varo di un governo destinato a durare un’intera legislatura e a realizzare le urgenti (e anche dolorose) riforme di cui l’Italia ha bisogno.

Chi guarda il nostro Paese dall’esterno, spesso è portato a leggerne le dinamiche politico-elettorali in modo grossolano e stereotipato. Per una realtà come quella italiana, strutturalmente instabile da secoli, debole nelle sue articolazioni istituzionali e dagli umori collettivi a dir poco indecifrabili, è più facile scommettere sulla confusione che sulla durata (e la trasparenza) delle sue strutture di potere. È dunque possibile che le preoccupazioni che si stanno registrando in queste ore nelle cancellerie e nei centri della finanza globalizzata, nel caso l’esito delle urne non produca un vincitore netto e una maggioranza forte, siano frutto di una psicosi o, per dirla tutta, di una profezia che alcuni ambienti politici europei, alcuni investitori e speculatori internazionali, vorrebbero vedere realizzata: quella di un’Italia costretta a ricorrere dalla forza delle cose allo scudo finanziario dell’Europa per salvare i suoi conti pubblici e, in prospettiva, addirittura a uscire dall’Euro.

Lascia tuttavia pensare che a discutere dell’eventualità di un governo di larga o grande coalizione – come soluzione allo stallo che potrebbe prodursi al Senato e alla frammentazione che quasi sicuramente si determinerà nella rappresentanza partitica – siano anche i protagonisti dello scontro elettorale in corso, evidentemente convintisi a loro volta che l’esito delle urne, al di là dei proclami propagandistici e degli annunci di vittoria o di sorpasso, potrebbe non produrre una coalizione vincente nei due rami del Parlamento.

Ieri Mario Monti ha sostenuto che “per affrontare i problemi dell’Italia serve un consenso piuttosto largo” e ha invocato “uno spirito di larga condivisione”, se non per la formazione del governo almeno per l’elezione delle principali cariche istituzionali (a partire, ovviamente, dal Capo dello Stato).

Una prospettiva che con riferimento alla modifica dell’architettura costituzionale non dispiace a Berlusconi, che l’ha tuttavia esclusa come formula per il governo del Paese, mentre la Lega ha detto senza giri di parole che non è interessata ad alcuna ammucchiata con la sinistra e Bersani, almeno ieri, ha preferito non esprimersi sul tema.

Il problema è però capire cosa significhi questa proposta montiana nel contesto che potrebbe scaturire dalle urne. Solitamente la grande coalizione coinvolge i due partiti principali (strano dunque che la suggestione sia venuta da Monti, l’uomo per definizione della “terza forza”, e ammesso che il secondo partito sia poi davvero Berlusconi e non magari Grillo) ed è una formula politica alla quale si arriva di necessità dopo il voto, non se ne parla prima.

Qualcuno, dinnanzi al perdurare della crisi economica e a un Parlamento frammentato, pensa forse che sia possibile rispolverare la “strana maggioranza” a tre (Pd, Pdl, Udc-Fli) che per circa un anno ha sostenuto l’esecutivo tecnico di Monti. Ma dopo una campagna elettorale in cui sono voltati gli insulti e la lotta politica si è nuovamente polarizzata, sembra davvero difficile riproporre un’intesa in Parlamento (peraltro guidata da chi, da un nuovo tecnico?) che sarebbe rissosa e impotente.

Invocare inoltre un accordo di unità nazionale con un Pdl, come talvolta si dice, “deberlusconizzato” è un’autentica fola: il Pdl – come questa campagna elettorale ha dimostrato – coincide con il Cavaliere in ogni sua espressione, tanto più se l’esito delle urne riuscirà a dimostrare, ancora una volta, la sua capacità a mobilitare le truppe che da vent’anni gli sono fedeli qualunque cosa faccia o prometta. Se il problema, per Bersani e Monti, è la persona fisica di Berlusconi, che certo non si farà da parte dopo il voto non avendolo fatto prima, allora tanti saluti alla “grande coalizione” in qualunque forma.

Se mai ci sarà lo stallo tanto paventato, non resta dunque che l’opzione di un accordo parlamentare e di governo tra centrosinistra e centro liberale, che ovviamente è cosa politicamente assai diversa da una “grande coalizione”. Ed è la soluzione della quale in effetti si parla da settimane come dell’unica realistica. A meno che…

Tutti scommettono sul fatto che la pattuglia di Grillo, una volta arrivata in Parlamento, non farà accordi con nessuno, nemmeno con Bersani. Ecco, io non ne sarei così sicuro. E se far nascere un nuovo governo si rivelasse decisivo l’apporto dato alla coalizione di centrosinistra da una pattuglia di grillini?

* Editoriale apparso sul “Mattino” (Napoli) del 20 febbraio 2013.

 

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