di Alessandro Campi
La decisione della Germania di concedere il diritto d’asilo ai profughi dalla Siria, senza tenere conto di qual è stato il loro primo Paese d’ingresso nell’Unione europea, è certamente una buona notizia. Soprattutto per l’Italia e la Grecia, le due nazioni da anni più esposte alla pressione immigratoria proveniente dalla frontiera sud del Mediterraneo e che per lungo tempo hanno dovuto fare fronte agli arrivi in massa dei rifugiati (oltre che degli immigrati economici clandestini) con le loro sole forze, nell’indifferenza cinica, colpevole e alla fine persino controproducente degli altri partner europei. Ci sono volute centinaia di morti in mare per spingere i diversi Stati del centro-nord Europa ad intervenire anch’essi nelle azioni di salvataggio dei naufraghi. E c’è voluto l’assalto dei profughi alle frontiere terrestri dei Paesi dell’Europa orientale per rendersi conto che gli sbarchi sulle coste erano solo una parte del dramma collettivo denunciato a più riprese proprio dall’Italia.
Ma il fatto che, in deroga a quanto previsto dalla convenzione di Dublino, i tedeschi non respingeranno – come pure potrebbero fare sulla base degli accordi europei vigenti – i rifugiati siriani che, provenendo da altri Stati dell’Unione, riusciranno a raggiungere il loro territorio (e che certo non avranno difficoltà a dimostrare di stare scappando dagli orrori di una guerra civile) è anche la conferma che in Europa sulla questione dell’immigrazione (nelle sue diverse espressioni e varianti: cercare lavoro e benessere non è la stessa cosa che provare a salvare la propria vita, anche se sta prevalendo la cattiva abitudine di parlare genericamente di “migranti” per indicare tutti coloro che lasciano per qualunque motivo il loro Paese d’origine) ci si continua a muovere in modo improvvisato e senza alcun coordinamento.
Apprezzabile sul piano umanitario e insindacabile dal punto di vista formale (una clausola della convenzione di Dublino consente ai singoli contraenti di sospenderne l’applicazione in situazioni di particolare emergenza), quella assunta dal governo della Cancelliera Merkel è stata infatti una decisione politicamente unilaterale, presa senza confrontarsi con nessuno preventivamente. Certo, nei riguardi degli altri membri dell’Unione europea ci si può giustificare sostenendo (come il governo italiano peraltro afferma da tempo) che gli accordi di Dublino, nelle loro diverse redazioni, hanno fatto il loro tempo, hanno dimostrato di essere troppo macchinosi e debbono dunque essere rivisti. O, meglio ancora, adducendo quanto sta accadendo nella zona dei Balcani, con le migliaia di profughi (soprattutto siriani, afgani, somali ed eritrei) che da settimane cercano con ogni mezzo di superare le frontiere della Serbia e dell’Ungheria, quelle della Macedonia e della Bulgaria, con l’obiettivo di raggiungere l’Europa centrale. Profughi che – per un residuo di spirito cristiano e pensando a quali tragedie si sono già consumate nel corso del Novecento in quella parte del continente a danno degli stessi popoli europei e per colpa esclusiva di questi ultimi – non si può certo pensare di fermare schierando l’esercito in armi o alzando barriere di filo spinato, come pensano di fare il governo di Budapest e quello bulgaro. Poteva la Germania – che dell’Unione evidentemente aspira ad essere la guida non solo politico-economica, ma anche morale e civile – restare sorda o inerte dinnanzi a questo brutto spettacolo?
Resta tuttavia il problema di un’Europa che, nonostante le pubbliche dichiarazioni dei suoi massimi rappresentanti e gli impegni assunti da capi di Stato e di governo nel corso di summit e incontri ufficiali, non riesce a sviluppare una linea comune d’azione rispetto a quello che non è solo un dramma umanitario momentaneo, ma un fenomeno di portata storica, che come tale richiederebbe risposte all’altezza e di valore strategico.
Nessuno può infatti illudersi circa la possibilità che i conflitti armati in corso nel Nord Africa e nel Vicino Medio Oriente – alcuni dei quali alimentati dall’inerzia e dall’avventurismo di alcuni Paesi europei o dal loro andare in ordine sparso anche sui grandi temi della politica estera e militare (tipico il caso della crisi libica) – possano trovare una soluzione politico-diplomatica nel giro di pochi mesi. In questa zona del mondo – dove si intrecciano, in una miscela esplosiva, autocrazia politica, fondamentalismo religioso e culture tribali del tutto sorde al tema dei diritti civili e umani – la violenza delle armi ha assunto purtroppo un carattere strutturale e non immediatamente reversibile. Bisogna perciò attrezzarsi per affrontare, sul medio e lungo periodo, le conseguenze, che già abbiamo sotto gli occhi, di questa particolare situazione storica: persecuzioni sistematiche contro minoranze religiose ed etniche, vandalismi e distruzioni di beni storici operati come forma di propaganda ideologica, terrorismo endemico (compreso quello esportato verso l’Europa con l’obiettivo di destabilizzarne gli assetti democratici), nascite di Stati fantoccio e creazioni di “terre di nessuno” gestite dalla criminalità organizzata e infine – inevitabilmente – esodi di massa, fughe dai territori politicamente instabili o in guerra e spostamenti di popolazione attraverso confini divenuti sempre più porosi.
A dispetto della facile e irresponsabile propaganda dei partiti populisti, che in molti Stati d’Europa cercano di lucrare consensi facendo leva sulle facili paure collettive e creando un clima d’allarme sociale che le statistiche puntualmente smentiscono, non si possono negare diritto d’asilo e assistenza a coloro che fuggono da guerre e repressioni. L’Europa delle libertà e della tolleranza, per quanto difficile sia l’attuale momento economico che molti Paesi stanno attraversando (a partire proprio dall’Italia), non può che essere solidale con le vittime dei regimi autoritari e del fondamentalismo religioso, non foss’altro perché il nemico che essi hanno, in questa fase storica, è a ben vedere comune: l’Islam fanatico e oscurantista e i suoi, spesso ambigui e doppiogiochisti, fiancheggiatori.
Alla luce di questa situazione quello che serve è dunque un diritto d’asilo europeo che fissi modalità d’accoglienza condivise e regole di respingimento comuni, che stabilisca una distinzione chiara tra profughi (quelli che davvero scappano da guerre e persecuzioni e la cui condizione va certificata in modo inequivocabile) e immigrati per ragioni economiche (il cui flusso va per quanto possibile regolamentato e legalizzato), che preveda infine l’impegno attivo (in mezzi, uomini e risorse economiche) di tutti i membri dell’Unione. Va bene bacchettare l’Italia sulla creazione dei centri di raccolta e identificazione dei richiedenti asilo, come è accaduto in modo irrituale nei giorni scorsi durante il vertice straordinario tra Germania e Francia (un’altra prova che l’Europa non riesce a muoversi in modo comune e coordinato), ma come è possibile che ancora non ci si sia messi d’accordo, a dispetto di tutte le promesse, su come distribuirli in modo equilibrato tra i diversi Stati europei?
*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 27 agosto 2015.
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