di Chiara Moroni

verybello-01-638x425In certe occasioni sembra proprio che chi ha il potere e l’onere di promuovere forse le uniche vere ricchezze dell’Italia – la cultura, l’arte, la tradizione, il territorio – non sia in grado di farlo al netto del ridicolo, oltre naturalmente evitando errori di forma e di sostanza, ottenendo risultati scarsi pur spendendo una esagerata quantità di denaro pubblico.

Il Made in Italy è divenuto un brand riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo, prodotti, ma anche luoghi e opere d’arte, che potrebbero aiutare l’Italia ad attraversare il guado e ad uscire dal pantano della crisi e della miopia industriale che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni della nostra storia nazionale.

Il nuovo portale che pubblicizza gli eventi culturali italiani, quel “Verybello!” che ha in poche ore scatenato l’ilarità e non solo del web, è un errore. Un errore strategico, comunicativo, politico, economico. Ma è in buona compagnia di altri fallimenti promozionali: il sito “italia.it” promosso da Rutelli in un inglese incerto, costosissimo e mai andato a regime, ma anche lo slogan “Magic Italy” voluto da Michela Brambilla per rilanciare l’Italia nel mondo.

“Verybello!” è un nome-logo particolarmente ridicolo, che ammicca alla lingua inglese – salvo poi non presentare una versione del portale consultabile in inglese – che non rende la magia della “Grande bellezza” che tutto il mondo ci invidia, ma sottolinea quella tendenza un po’ sbruffona e non di rado becera all’improvvisazione, che viene riconosciuta ovunque come carattere determinante dell’italianità.

Eppure la comunicazione digitale non è più, da diversi anni, improvvisazione; la sua ormai raggiunta centralità ha portato allo sviluppo di professionalità specifiche, alla sperimentazione di linguaggi e strategie comunicative che ne fanno un motore economico e culturale. Come è possibile che chi ha materialmente realizzato il portale “Verybello!”, dedicato all’Expo – evento internazionale di dimensioni globali – non abbia avuto alcuna esitazione sul nome, sulla logica comunicativa che ne è l’ossatura, sulla evidente difficile fruibilità? Allora è da capire come è possibile che tra tutti i professionisti che ci sono oggi in Italia in questo campo, il Ministero dei beni e delle attività culturali abbia scelto i meno meritevoli – i risultati parlano chiaro. Ma la domanda più seria è: attraverso quale meccanismo di selezione è stata scelta questa agenzia piuttosto che altre, forse più preparate, per costruire uno strumento tanto strategicamente importante per il nostro Paese? Che ruolo hanno tutti quei tecnici, più o meno in organico al Ministero, che pure qualcosa forse avrebbero potuto dire su questo lavoro?

E allora si presenta, ancora una volta, il problema che affligge l’Italia da sempre e che, salvo un repentino cambiamento di indirizzo, la porterà al collasso: la mancanza di trasparenza e meritocrazia, a favore di quella prassi che davvero non è più sopportabile perché mortifica e penalizza un intero Paese in nome di una gestione superficiale, quando non dolosa, della cosa pubblica.

Allora Ministro Franceschini, forse invece di adoperarsi per pubblicare quell’infelice tweet piuttosto astioso e non poco infantile con il quale ha risposto polemicamente a tutte le critiche ricevute, avrebbe dovuto e potuto lavorare con più trasparenza, con più professionalità, con più “umiltà” ed evitare quel “Very Bello!” che tanto ricorda il “Noio volevan savuar” di Totò e Peppino. A meno che l’obiettivo non fosse proprio quello di ricordare al mondo intero quanto possiamo essere ridicoli nelle nostre piccolezze identitarie.

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