di Tommaso Milani

imagesCALS7G9VQuando, nella prima metà del 2009, gruppi di orientamento conservatore e libertarian presero a mobilitarsi contro la politica economica del Presidente Obama, gettando le basi del movimento noto come Tea Party, lo fecero adducendo motivazioni di carattere costituzionale. A torto o a ragione, gli autoproclamati Patriots sostenevano che la riforma sanitaria varata dai Democratici configgesse con alcuni princìpi essenziali dell’ordinamento americano, e che proseguire sulla strada del rafforzamento dell’Esecutivo e dell’estensione delle prerogative federali avrebbe comportato lo snaturamento della Carta fondamentale. Per la verità, era opinione diffusa in non poche frange della destra che il tradimento della Costituzione avesse origini assai più remote, e che Obama stesse in realtà portando a compimento un processo di demolizione in chiave collettivista dell’ordine politico statunitense le cui radici affondavano nel New Deal di Franklin D. Roosevelt o addirittura nella legislazione promossa da Woodrow Wilson quasi un secolo prima. A tale disegno veniva contrapposto il ripristino di un’interpretazione ultrarestrittiva, se non letterale, delle norme stabilite a Filadelfia nel 1787. Si trattava – avrebbe argomentato in seguito un noto editorialista del Financial Times, Gideon Rachman – di una vera e propria forma di «fondamentalismo costituzionale», che riveriva i Padri Fondatori e la loro opera alla stregua «di Gesù e della Bibbia», predicando «un ritorno ad antichi, consacrati princìpi» per scampare alla degenerazione in corso. Sennonché, affermava Rachman, quest’atteggiamento costituiva un approccio «pericolosamente semplicistico» (dangerously simple-minded) all’attività di governo, poiché uomini del calibro di Washington, Jefferson, Hamilton o Franklin, per quanto illustri, «si stavano misurando con i problemi del diciottesimo secolo» e non con quelli del ventesimo (G. Rachman, “Fundamentals lost among zealots”, FT, 18 luglio 2011).

Confesso che l’espressione «fondamentalismo costituzionale» mi è tornata alla mente leggendo il recente appello promosso dall’associazione Libertà e Giustizia, cui hanno aderito prestigiosi giuristi e autorevoli intellettuali pubblici – da Nadia Urbinati a Gustavo Zagrebelsky, da Salvatore Settis a Stefano Rodotà –, intitolato “Verso la svolta autoritaria” . Esso vanta un incipit tanto diretto quanto incisivo: «Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali». L’appello individua nel «monocameralismo» e nella «semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo» i due elementi che trasformerebbero l’Italia in una «democrazia plebiscitaria», la quale – garantiscono i sottoscrittori – «non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare». A inquietare gli autori sembra essere soprattutto il fatto che sia il Partito Democratico a premere per una simile involuzione: «La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato a parole e ora in sordina accolto».

È un peccato che il testo non contenga una definizione di «democrazia plebiscitaria», concetto ambiguo, spesso associato alla riflessione weberiana (in cui, tuttavia, assumeva connotazioni tendenzialmente positive!) ma che non figura tra le categorie con cui i politologi solitamente classificano le forme di governo. D’altra parte, sarebbe errato cavillare in eccesso la terminologia impiegata in un appello pubblico, il cui scopo è dichiaratamente quello di ridestare le coscienze, suscitare indignazione, spingere all’azione, non addentrarsi in disquisizioni troppo sottili. Ed è proprio sotto questa luce che l’espressione «fondamentalismo costituzionale» cattura efficacemente, a mio avviso, lo spirito che anima il documento.

Nella visione fondamentalista, analogamente a quella stigmatizzata da Rachman, la Carta non è entità perfettibile, ancorché con prudenza e dopo prolungate e approfondite meditazioni; non è il prodotto, storicamente determinato, di azioni umane, compiute in un contesto peculiare e soggette a condizionamenti e vincoli esogeni; non è una miscela di progettualità e contingenza, in cui lo sforzo creativo dei costituenti è anche, sotto certi aspetti, involontario veicolo di pregiudizi, precario frutto di compromessi, e addirittura – horribile dictu! – incerto esperimento contrassegnato, oltre che da successi, da errori gravidi di conseguenze non intenzionali. Al contrario, nella concezione fondamentalista la Costituzione incarna una supposta Età dell’oro (nel caso italiano, l’immediato dopoguerra), e assume la fisionomia di un cuore pulsante, una sorgente zampillante di verità superiori in grado di vivificare l’intero ordinamento, se solo la classe politica del presente, sottraendosi dalla propria condizione di decadenza e mediocrità, sapesse attingere a essa con umiltà e devozione. Al pari delle antiche vestali romane, spetterebbe agli uomini di cultura tenere viva la fiamma, perpetuando il culto della divinità e garantendo l’integrità dello Stato.

Il fondamentalista costituzionale è, ovviamente, un idealtipo e certo nessuno dei firmatari ne costituisce la compiuta personificazione. Eppure è difficile non percepire, nell’appello, un’autentica repulsione verso il tentativo di «stravolgere» l’esistente, quasi si sabotasse l’ordine costituito; un sincero malessere nei confronti di un Paese che «cambia faccia» al cospetto di partiti e cittadini liquidati come «attoniti (o accondiscendenti)»; una profonda disapprovazione riservata a quella parte di sinistra macchiatasi del peccato di «neutralizzare l’opinione di opposizione». Il tutto è espresso in un linguaggio quasi liturgico, carico di espressioni fortemente evocative e altamente simboliche, ma che inevitabilmente preclude una discussione franca e critica degli effetti della Costituzione del 1948; che non s’interroga sulle molteplici ricadute, non tutte necessariamente positive, del «parlamentarismo integrale», come lo definì Gianfranco Miglio; che ignora i costi, economici e sociali, di un quadro istituzionale imperniato su due assemblee dalla composizione per lo più disomogenea e frammentata, governi fragili e relazioni fra poteri dello Stato non sempre lineari e coerenti, temi ampiamente trattati dalla lettura scientifica non apologetica, a partire dall’ormai classico studio di Giuseppe Maranini, Storia del potere in Italia (1848-1967), pubblicato per la prima volta quasi cinquant’anni fa.

Ciò non significa, beninteso, che le riforme proposte da Matteo Renzi siano giocoforza condivisibili: anzi. Ma che tentativi, per giunta appena abbozzati ed esitanti, di rivisitare il regime parlamentare vigente irrobustendo il ruolo dell’Esecutivo generino una simile levata di scudi, con tanto di agitazione dello spauracchio autoritario, è fenomeno preoccupante per chi auspica che il dibattito pubblico sia qualcosa di più, e di meglio, di una zuffa fra innovatori improvvisati e custodi di un’ortodossia sclerotizzata. E ancora di più dovrebbe turbare quanti hanno a cuore una ristrutturazione del parlamentarismo, non per abbatterlo ma per renderlo più equilibrato e operativo, e dunque più solido. Anche perché – la Francia del 1958 insegna, per tacere di esempi più drammatici – sistemi politici altamente disfunzionali non sopravvivono in eterno, specie se esposti a turbolenze esterne. E non di rado gli alleati più preziosi dei loro distruttori si sono rivelati, paradossalmente, coloro che strenuamente si battevano per non mutare alcunché.

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