di Alessia Chiriatti
“La storia è la nostra bolla nell’eternità”: così si esprimeva Martin Wight già nel 1948 nel suo The Church, Russia and the West. Politologo e storico della Scuola Inglese, allievo di Arnold Toynbee, si avvicinò alle relazioni internazionali con un piglio storiografico, nel tentativo di ripercorrere ciò che l’uomo e lo Stato, ciò che il dentro ed il fuori avevano prodotto nell’arena politica, prima domestica e poi mondiale. Egli respinse la definizione di “teoria delle relazioni internazionali”, preferendole la più intuitiva “teoria internazionale”: per l’autore infatti non si tratta della “metodologia dello studio delle relazioni internazionali, o (di) qualche sistema concettuale che offra una spiegazione unificata dei fenomeni internazionali”. Wight si avvicina a questa scelta con la convinzione che in questo modo la teoria possa divenire più vicina ad una “tradizione di speculazione sulle relazioni fra gli stati”.
Michele Chiaruzzi, borsista della Scuola Superiore di Studi Storici, visiting fellow alla University of Cambridge, Brown University e University of Queensland, ora insegnante di Relazioni Internazionali presso l’Università di Bologna, ha curato l’introduzione dell’edizione italiana di Teoria Internazionale, Le tre tradizioni (Il Ponte, Milano 2011), il testo di Martin Wight pubblicato postumo già nel 1991 grazie all’intervento di Gabriele Wight, Brian Porter, Adam Roberts e Hedley Bull. Con la sua presentazione Chiaruzzi è riuscito a cogliere i tratti più salienti di un autore pietra miliare, che nei suoi studi ha sempre cercato di sfuggire dalle definizioni accademiche più stringenti, e di non lasciarsi relegare ad una tradizione di pensiero, realista o idealista che fosse. Lo stesso Chiaruzzi si chiede se Wight non fosse da inserire nella narrazione groziana, ma nel testo si ricorda come anche l’allievo Bull ad ogni lezione si interrogasse su quale fosse il vero spirito che animava il maestro, sempre attento a lasciare i suoi studenti costantemente nel dubbio. Martin Wight fu uno dei fondatori della Scuola Inglese, la tradizione che credeva che, nonostante la condizione generale di anarchia del sistema internazionale, esistesse comunque una società di Stati, in grado di plasmare e guidare la politica internazionale. Il suo è un filone da considerare a metà tra il dibattito realista e quello idealista, che caratterizzò il panorama politologico tra il 1930 ed il 1950, in risposta al clima di eccessiva fiducia della Società delle Nazioni. Uno scontro accademico volto a trovare un rimedio alla barbarie del secondo conflitto mondiale che aveva messo fine al parziale rapporto di interdipendenza tra gli stati, capitolata di fronte ai nazionalsocialismi e all’eccessiva fiducia nella cooperazione internazionale. Dall’altra parte dell’oceano, Kenneth Thompson e Hans Morgenthau riunirono attorno a loro un circolo di studiosi in grado di argomentare in merito alle scienze sociali ma con atteggiamento internazionalista, discutendo con tutta quella tradizione neopositivista che trovava nella ricerca quantitativa un modo per studiarle in maniera scientifica, creando delle leggi valide su scala universale. Nella prospettiva di Morgenthau ciò che era più utile era riflettere sul potere, non guardare ai sistemi domestici, ma all’arena della politica internazionale. In quest’ottica, l’atto fondativo ed il paradigma dominante fu come una partita a scacchi, dove il nero, tradizionale sfidante, sacrificava con un “gambetto” un pezzo nella sua apertura per vincere la sua partita contro l’avversario bianco: l’idealismo diventava perciò una teoria, il realismo una scienza.
Il secondo dibattito, tra il 1950 e il 1970, vedrà poi il realismo scontrarsi contro il behaviourismo. Anche Hedley Bull intervenne a tal proposito, chiedendosi se non fosse piuttosto il caso di relegare il dibattito all’universo filosofico, ma Morton Kaplan intervenne con il suo System and Process in International Politics, sull’onda dell’exploit della Teoria Generale dei Sistemi discussa a Palo Alto. Fino a quando non fu Kenneth Waltz a riprendere le fila del discorso, e, con il suo Theory of International Relations, a mettere ordine attraverso uno studio affrontato su livelli di analisi diversi. Mentre l’America si imbatteva nel funzionalismo, nel principio delle specializzazioni, laddove a prevalere è la necessità di difendersi dal nemico, la Scuola Inglese rimaneva nel solco della tradizione storica. Due approcci diversi dunque, tra l’Inghilterra e le università d’oltreoceano: se Morgenthau fu infatti il padre di un realismo morale, orientato alla ricerca di una risposta alla domanda “che tipo di teoria è quella che ti dice se è meglio la guerra atomica o cedere all’Unione Sovietica?”, la Scuola Inglese presuppose uno studio oggettivo e avalutativo delle Relazioni Internazionali, a partire dalla scienza politica e curato da storici. La tradizione inglese segna dunque il punto di discordanza tra realisti ed idealisti. Wight in questa diatriba cerca di trascendere la diade, di chiedersi se al centro ci sia l’uomo, e di guardare alla “natura del metodo e al fondamento degli studi”: egli ribadisce come “non esiste una chiara tradizione di ricerca, un corpo di teorie e riflessioni, sulle relazioni tra gli stati e sui problemi di obbligazione che sorgono in assenza di governo”. Le relazioni internazionali vengono nuovamente inserite nel dibattito originario della storia e della scienza politica. La domanda questa volta è: se nel confine domestico esiste la polis, cosa c’è fuori? Con Machiavelli si supera in parte il dibattito interno-esterno, ma le Relazioni Internazionali rimangono fortemente carenti di tradizione filosofica: la nuova disciplina “necessita di un ancoraggio ai classici, come se non fosse già di per sé una teoria”. Uomo di “un’erudizione immensa, saggezza, espressione pungente e un’aura di grande autorità morale”, Martin Wight tracciò per questo le fila di tre tradizioni, quella realista, quella razionalista e quella rivoluzionista, da non considerare come nicchie o etichette, ma come dei fili intessuti in infinite sfumature. Egli affronta questo studio attraverso un lessico ben preciso, basilare per una discussione di respiro politologico e internazionale: Wight parla infatti di interesse nazionale, di diplomazia, di guerra, di società internazionale, di potenza, ma anche di natura umana. L’ancoraggio storico è nuovamente fondamentale: il controllo della politica globale ed il disarmo nell’età dei missili, la guerra fredda e poi il periodo di distensione tra USA e URSS, il bipolarismo e la corsa per la supremazia mondiale, tutti questi elementi influenzarono naturalmente i dibattiti accademici sulle Relazioni Internazionali, portando al centro della discussione prima l’uomo poi nuovamente lo Stato ed il balance of power nell’anarchia internazionale.
Le ragioni storiche opposero Wight a George Kennan: il primo definì la posizione del secondo “completamente irrealistica” e “lontana dalla realizzabilità”, ma come afferma Adam Roberts nel suo contributo al testo di Wight “quarant’anni dopo, Gorbaciov ha dimostrato che le caratteristiche immaginate da Kennan erano ben lungi dall’essere assurde”. Lo stesso Chiaruzzi, nel suo esaustivo compendio, dichiara che “la teoria internazionale di Wight abbraccia così, in un quadro sinottico fissato su alcune direttrici essenziali e costitutive, un’intera dinamica speculativa ancorata alla ferma volontà di non respingere mai voci tra loro dissenzienti e anche antitetiche, ma di accoglierle invece comprensivamente, coniugandole”.
Martin Wight deve in fondo molto al suo maestro Arnold Toynbee, il quale scrisse “l’Occidente non è mai stato l’unica parte importante del mondo. Non è stato il solo attore della storia moderna, nemmeno all’apogeo della sua potenza. (…) La parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stata finora il resto del mondo, non l’Occidente”. Per Wight la storia non è caratterizzata da sostanziale fissità, né tantomeno esiste progresso inevitabile, ma è piuttosto “espressione della libertà drammatica dell’uomo”, in continuo movimento e mai stazionaria. Il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, come fa notare Luciano Canfora nella post fazione a Toynbee, è una sorta di premonizione: la categoria decisiva è quella di sfida-risposta, nel momento in cui le civiltà entrano in rapporto e si scontrano tra loro. Una “radiazione culturale”, laddove ogni civiltà ha un suo ciclo naturale, di sviluppo, fioritura e decadenza, al quale anche l’Europa è giunta. Ecco perché si potrebbe pensare che lo studio delle Relazioni Internazionali diviene ancora più fondamentale, per scoprire dove si è diretti e se l’antica civiltà europea può riuscire a sopravvivere allo scontro con l’hostis, in un dilemma del prigioniero che grazie all’interdipendenza può trasformarsi in un gioco vincente, grazie al raggiungimento dell’ottimo paretiano.
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