di Alessandro Campi
Nicola Zingaretti è dunque il nuovo segretario del Partito democratico: un risultato ampiamente previsto e atteso. E’ stato eletto grazie al voto di oltre un milione e mezzo di simpatizzanti ed elettori. L’augurio migliore che gli si possa fare è di poter svolgere il suo ruolo per un periodo politicamente congruo, senza finire nei giochi di potere e negli scontri tra correnti che dal 2007 ad oggi hanno determinato ben otto cambi della guardia al vertice di quel partito: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Orfini, Renzi, Martina. Riuscirà Zingaretti a smentire il malizioso luogo comune secondo il quale il gioco preferito nel Pd, in tutti questi anni, è consistito nell’affossare i propri leader subito dopo averli scelti?
Rispetto al timore che ai gazebo si recassero in pochi (meno del numero magico di un milione), normale che i primi commenti siano stati dedicati ad enfatizzare l’alto numero dei votanti. Un segno di vitalità politica che è stato anche una prova di ‘democrazia diretta’ certamente migliore delle poche migliaia di maniaci della tastiera che il M5S prova ogni volta a spacciare per il popolo sovrano. Ma la gioia (legittima) per una così alta partecipazione (non scontata visto il tono dimesso e asfittico del dibattito che ha preceduto questo voto) rischia di trasformarsi in pura retorica se non ci si rende conto che il difficile, per il Pd e per Zingaretti, viene ora.
Partiamo da quest’ultimo. La sua vittoria è certamente dipesa da alcune caratteristiche che gli sono intrinseche. Ad esempio, il pragmatismo e la capacità di dialogo che ha dimostrato nella sua esperienza prima alla guida della Provincia di Roma (2008-2012) e poi (dal marzo 2013) della Regione Lazio. Ma se la sua candidatura ha trovato un così vasto consenso è anche perché pezzi importanti della nomenclatura democratica, desiderosi di lasciarsi alle spalle la stagione del renzismo, si sono schierati pubblicamente al suo fianco. Sin dalle origini il Pd è stato un partito all’interno del quale hanno convissuto notabili, oligarchie e cordate di diversa provenienza: esattamente il suo limite politico e strutturale. Zingaretti, nella sua nuova veste di segretario, sarà il garante di certi antichi e perduranti equilibri o riuscirà a muoversi in autonomia e senza troppi condizionamenti?
In quest’ultimo caso dovrà certamente fare delle scelte politiche dirimenti, indicando una linea d’azione chiara. Ad esempio rispetto alla possibilità che, già alle prossime elezioni europee, il Pd diventi parte di una coalizione elettorale più vasta in funzione anti-populista. Andare oltre il Pd per rilanciare il Pd: una bella formula che però implica il rischio di perdere la propria centralità e di diluire più di quanto non sia già avvenuto la propria specificità politica e culturale.
Più in generale si tratterà di spiegare verso quale esatta direzione si intende marciare, anche in termini di possibili alleanze quando, prima o poi, si tornerà al voto: verso sinistra con l’idea di riprendersi gli elettori in fuga verso il M5S e di fare del Pd l’aggregatore di tutte le realtà e sensibilità che gravitano nell’area progressista o, in continuità con la strategia renziana, verso il centro moderato-conservatore che non si riconosce nelle posizioni della destra salviniana? Dalle dichiarazioni di Zingaretti prima del voto, sembrerebbe aperte entrambe le strade, che però nel concreto dell’azione politica appaiono inconciliabili.
Quanto al rapporto col M5S, Zingaretti sembra scommettere sulla sua disarticolazione o implosione nel breve periodo, escludendo al tempo stesso qualunque collaborazione nel prossimo futuro. Ma l’idea che i grillini possano presto finire come esperienza politica organizzata sembra un po’ troppo frettolosa. Come appare frettoloso escludere che il Pd possa un giorno allearsi con i grillini (con i quali peraltro Zingaretti già collabora in Regione): nell’Italia tornata al voto proporzionale, dove dunque si può governare solo in coalizione con altri partiti, quella di un’intesa con il M5S è per il Pd una opzione più realistica di quanto Zingaretti sia disposto ad ammettere.
Ma non ci sono soltanto i problemi di linea politica. Il Pd ha anche un serio problema organizzativo, che toccherà proprio a Zingaretti affrontare. C’è da reimpostarlo sul territorio, dove in molti contesti ha perso aderenza e capacità di penetrazione. C’è da ricostruirne la catena di comando e controllo dal centro verso la periferia: una debolezza che nemmeno Renzi è stato in grado di risolvere, tanto che quest’ultimo ha avuto un controllo ferreo del Pd a livello centrale, ma a livello locale ha dovuto sopportare il radicarsi di capi bastone, cacicchi e consorterie. C’è anche da rimotivarlo a livello di militanti e attivisti: nei gazebo si recano a votare i simpatizzanti, quelli che si materializzano solo nelle occasioni topiche, ma un partito per funzionare quotidianamente ha bisogno di apparati, quadri e personale politico.
La questione organizzativa nel prossimo futuro non sarà secondaria, se si vuole rendere il Pd nuovamente competitivo. Anche perché il suo dna, per come Veltroni l’ha immaginato, è quello di un partito maggioritario chiamato ad operare nel contesto di una democrazia bipolare, molto orientato al sostegno del leader nella sua corsa verso il governo. Ma la geografia politica italiana oggi è tutt’altra, siamo una democrazia tripolare e proporzionale, anche se Zingaretti, stando a certe sue dichiarazioni, sembra credere possibile un ritorno alla contrapposizione elettorale diretta tra destra e sinistra. Forse sarebbe meglio prendere atto della mutata realtà e dare al Pd un assetto interno che lo renda meno un docile (e agile) strumento nelle mani del capo e più una struttura in grado di selezionare dal basso i suoi gruppi dirigenti, un luogo d’incontro e di discussione sul territorio capace di elaborare le proprie scelte in modo condiviso, uno strumento di collegamento con le realtà associative, i corpi intermedi e i gruppi organizzati.
C’è poi da considerare il tema dei temi: quanto peserà Renzi nel futuro del partito e nell’azione della nuova segreteria? Al momento tutti sembrano accontentarsi delle sue dichiarazioni conciliatrici: ha detto che non farà la guerriglia contro il nuovo segretario come invece accadde nei suoi confronti. Ma l’idea che Renzi appartenga ormai al passato della sinistra italiana (in termini di proposta politica e di capacità di consenso) o che abbia rinunciato a qualunque ambizione come leader è tanto ingenua quanto errata. Dal dibattito congressuale si è tenuto platealmente fuori, dando sempre l’impressione di essere sul punto di voler lasciare il Pd. Ma davvero un suo nuovo partito, frutto di una dolorosa rottura dal Pd, sarebbe comunque un naturale alleato e interlocutore di quest’ultimo come Zingaretti tende a pensare con un po’ troppo di ottimismo?
Ma anche se si esclude la scissione è difficile credere che Renzi possa restare nel Pd, non solo senza ambire ad alcun ruolo o carica, ma senza pretendere che la sua proposta politica venga ripresa e rivitalizzata (ammesso sia possibile visto la connotazione fortemente personalistica di quella proposta). Cosa c’è da salvare del ‘renzismo’? O è una stagione da liquidare interamente come fallimentare per le divisioni che ha determinato all’interno del Pd e della sinistra nel suo insieme? Su queste domande Renzi pretenderà una risposta e Zingaretti dovrà inevitabilmente darle.
Ciò detto, un partito (di opposizione) che riparte e che cerca di ritrovare la propria strada è una buona notizia, considerato il ruolo decisivo, sul piano politico-costituzionale, che l’opposizione è chiamata a svolgere in qualunque sistema democratico. Esattamente ciò che l’attuale governo giallo-verde non ha avuto in questi mesi, in cui praticamente si è fatto l’opposizione da solo.
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