Marco Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Prefazione di I. Diamanti, Carocci, Roma, 2022, pp. 440, euro 39,00
di Antonio Floridia
Marco Almagisti, con la pubblicazione della nuova edizione aggiornata del suo lavoro Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea conclude una ricerca più che decennale sulla qualità e i caratteri della democrazia in Italia, sulla sua storia e i caratteri originali, fino all’odierna, difficile e incerta fase di crisi e di trasformazione.
Il lavoro di Almagisti si è sempre caratterizzato per un costante affinamento teorico e metodologico degli strumenti concettuali attraverso cui guardare a questa storia, ma possiamo dire che questo ultimo volume (in particolare, nel primo capitolo) presenta oramai un quadro ben definito, lucido ed esaustivo, delle categorie teoriche che si rivelano molto feconde nell’analisi della democrazia italiana, e delle condizioni che l’anno resa “possibile”. Al centro, possiamo cogliere un’esemplare fedeltà ai dettami dell’insegnamento weberiano: le scienze della società, e tra queste la scienza della politica, procedono attraverso la costruzione di modelli ideatipici che possano fornire la guida ad un’analisi comparata dei diversi percorsi storici e/o territoriali. E dunque, di fronte al caso italiano, la scelta è quella di ispirarsi ai due, oramai classici, approcci teorici di Rokkan e di Putma: la teoria dei cleavages che hanno strutturato i sistemi politici europei e il concetto di capitale sociale. Almagisti sperimenta, per così dire, “sul campo”, la vitalità di questo approccio rokkaniano-putmaniano, così egli stesso ripetutamente lo definisce, mostrando come esso possa fornire una griglia interpretativa convincente delle vicende della democrazia italiana. E proprio questo approccio, ai fini di un’interpretazione comparata, porta l’autore a concentrare la ricostruzione analitica su due specifiche aree territoriali, il Veneto e la Toscana: regioni che presentano aspetti per molti versi molto peculiari, ma che proprio per questo assumono una valore paradigmatico e possono aiutare anche a cogliere, per differenza, diversi percorsi e diverse combinazioni.
Il libro di Almagisti (in basso, nella foto) può essere ricondotto all’ambito disciplinare della “politologia storica”: con questa espressione si intende un campo disciplinare che adotta categorie e strumenti della scienza politica, applicandoli al “materiale” empirico che viene offerto dalla storiografia. Questo approccio ci restituisce così una storia, per così dire, “vertebrata”: non un fluire più o meno indistinto di eventi, ma una vicenda segnata da alcune “costanti” di lungo periodo, che emergono come strati profondi della storia italiana. E una storia in cui coesistono anche lìvelli diversi di temporalità: movimenti di lungo periodo e oscillazioni più “superficiali”. La teoria rokkaniana dei cleavages, in particolare, fornisce un elemento che, spesso, viene trascurato: le fratture sociali non producono di per sé, in modo deterministico, un allineamento della rappresentanza politica: occorre sempre una soggettività politica, dotata di una visione strategica, che politicizzi le fratture, le renda politicamente significative. La storia italiana, e la storia di queste due regioni italiane, – in forme molto diverse tra loro – si costruisce a partire dalle fratture tra Stato e Chiesa, tra centro e periferia, tra città e campagna, e poi successivamente quella tra capitale e lavoro, quando irrompe sulla scena il movimento operaio e socialista; ma ad ogni grande tornante della vicenda italiana hanno agito le scelte degli attori sociali e politici, e hanno agito le loro forme di cultura politica (da intendere come i modelli cognitivi e valutativi attraverso cui gli attori si auto-comprendono come soggetti politici).
Altrettanto ricco e sfumato il concetto di “capitale sociale” che Almagisti adotta nella sua ricostruzione. La democrazia, in Italia, è stata “possibile” grazie alla valorizzazione delle dotazioni di “capitale sociale” che, in modo molto diseguale, si sono formate e stratificate nelle varie articolazioni territoriali del paese. Capitale sociale” è di per sé un concetto “neutro” – non necessariamente lo si deve abbinare ad una valutazione positiva: vi possono essere forme di capitale sociale improntate ad una logica chiusa e particolaristica, (bonding, come le definisce Putnam: relazioni sociali che creano “confini” e si fondano sull’esclusione dell’altro); e vi possono essere forme di capitale sociale aperte e inclusive, fondate su forme di solidarismo civico, sul senso di una comune cittadinanza (bridging, che costruiscono “ponti”). Vi possono essere così reti fiduciarie di impianto e respiro universalistico, e reti fiduciarie “a corto raggio”. E si possono creare particolari circoli virtuosi o viziosi: una cultura politica ricca di civicness può agire come base di legittimazione delle istituzioni democratiche, ma sono poi anche le istituzioni, il loro modo di interagire con la società, ad alimentare le relazioni fiduciarie che possono legare i cittadini alle istituzioni (o a dilapidare, con il loro cattivo esempio, un “capitale sociale” ereditato dalla storia). I partiti, accanto alla presenza di molti altri agenti intermedi, sono un elemento fondamentale di questo processo: è attraverso di essi che si può produrre “un ancoraggio democratico” (altro concetto-chiave nel libro di Almagisti): sono i partiti che aggregano e mediano le domande sociali, gli interessi e i valori, e far sì che possano prodursi forme di coscienza e identità collettive.
La scelta di concentrare l’attenzione sulle due grandi “subculture politiche territoriali”, quella “bianca” del Veneto e quella “rossa” della Toscana, sulla loro formazione, ascesi, consolidamento, fino al logoramento e poi alla loro “caduta”, nell’ultimo ventennio -, non è dunque una scelta riduttiva, rispetto all’orizzonte nazionale: “Sorte quali identità collettive politicamente e culturalmente antagoniste rispetto al “centro” nazionale” – scrive Almagisti – “le subulture politiche territoriali sono diventate le più significative “casseforti” di capitale sociale collegate ai due principali partiti del (primo) periodo repubblicano” (p.108). Pur accomunate da questa comune genesi lungo la linea di frattura centro-periferia, queste due subculture seguiranno percorsi molto diversi, non solo per i partiti che ne saranno interpreti, ma anche per i diversi modelli di regolazione istituzionale da cui saranno caratterizzate e per le diverse modalità di legittimazione delle istituzioni democratiche. I limiti e le contraddizioni dell’attività regolativa e integrativa delle istituzioni nell’Italia post-unitaria, e la debolezza delle élite liberali, hanno aperto la via, in alcune aree del paese, ad una peculiare funzione “sussidiaria” di altri soggetti: la Chiesa e il movimento socialista. Ma, naturalmente, secondo logiche e con esiti profondamente diversi, come ben mostrano i capitoli in cui l’autore tratteggia la diversa traiettoria storica delle due aree. In Veneto, una diffusa cultura antistatalista, di matrice religiosa; in Toscana, un tessuto di autogoverno “repubblicano” e di “municipalismo” che non viene mai meno. E poi strutture economiche diverse: la piccola proprietà terriera, in Veneto; la mezzadria, in Toscana: con tutto ciò che questo implica in quanto a cultura e mentalità collettive, propensioni al conflitto o alla deferenza. E tuttavia, nella storia dell’Italia post-unitaria, nell’uno e nell’altro caso, si è trattato di un “capitale sociale fuori dallo Stato”.
Una storia “lunga” che però ha potuto esercitare i suoi effetti solo grazie al lavoro di costante reinterpretazione che gli attori politici ne hanno compiuto nelle diverse giunture storiche. Il ruolo dei due grandi partiti di massa, nel dopoguerra, è stato quello di “ancorare” queste culture politiche territoriali al nuovo quadro costituzionale: un compito di legittimazione, che tuttavia non intaccava la fragilità delle basi di identificazione collettiva nelle nuove istituzioni democratiche. Altrove, in Italia, e specie nel Sud, mancavano quelle risorse istituzionali e culturali, che potevano fornire quell’”ancoraggio”. La nuova democrazia italiana, così, è rimasta sempre esposta ad un deficit di legittimazione: si è rivelata sempre debole quella “cultura di sfondo” che può dare ad una costituzione democratica la forza di un progetto socialmente condiviso, da difendere, sviluppare e interpretare nella vita politica di tutti i giorni.
Questo equilibrio ha retto fino a quando, e nella misura in cui, le culture politiche presenti nel paese hanno trovato nei partiti di massa interpreti e mediatori intelligenti. Se i partiti hanno permesso, tra il dopoguerra e gli anni Settanta, un processo di consolidamento democratico, la radice della crisi apertasi con gli anni Novanta va allora colta nel “disancoraggio” dei partiti, dalla perdita di quella peculiare capacità di mediare interessi e valori, culture politiche, territori.
Almagisti dedica i capitoli centrali del suo lavoro alla vicenda dell’Italia repubblicana. L’autore, richiamando l’insegnamento di Machiavelli sulla “produttività” di un conflitto strutturato (pp. 66-7), sottolinea come il conflitto ideologico abbia svolto in Italia essenziali funzioni integrative. Le “ideologie” dividevano ma, nel contempo, consentivano di “tenere insieme” una democrazia sempre insidiata da un “fondo” di cultura politica, ben presente nella società italiana, fatto di antiparlamentarismo e di pulsioni reazionarie e populiste. Questo quadro comincia a mutare con il Sessantotto: le domande di trasformazione sociale, che pure avevano trovate risposte significative nelle riforme del primo centrosinistra e poi nelle riforme degli anni Settanta, non si traducono in nuovi equilibri di governo e in un’adeguata azione dei partiti. Inizia così un processo di “autonomizzazione del capitale sociale rispetto ai partiti”.
La griglia teorica fondata sulla combinazione di alcune categorie-chiave (fratture sociali, capitale sociale, ancoraggio democratico, incapsulamento dei conflitti) permette di leggere la complessa fase storica che si apre dopo l’Ottantanove: la frattura di cultura politica incardinata sull’anticomunismo perde la sua centralità e, sommandosi alle tensioni sul fronte economico (le nuove rigidità indotte dal sistema monetario europeo, il debito pubblico), provoca uno smottamento decisivo proprio in quel pilastro dell’”ancoraggio” partitico che, per la DC, era rappresentato dal Veneto. Il primo vero segnale della crisi della “prima Repubblica” si coglie già nel 1983, quando la Dc di De Mita, e il progetto di modernizzazione che egli incarnava, fu punita da una forte flessione elettorale proprio in Veneto, fino a giungere al vero e proprio “naufragio del Veneto ‘bianco’” nelle elezioni regionali della primavera del 1990. Si produce una nuova “politicizzazione” della frattura centro-periferia, che la Dc non si rivela più in grado di controllare e governare. Tutte le condizioni che permettono di parlare pur sempre di una regione con un elevato capitale sociale (ma sempre più “a corto raggio” e bonding) permangono, ma si spezza la connessione con la politica, mentre nuovi interpreti del localismo e dell’antico antistatalismo si affacciano sulla scena. Diversa la traiettoria nelle zone “rosse”, almeno fino agli anni Dieci del nuovo Secolo, potremmo aggiungere: la crisi e poi lo scioglimento del Pci provocano anche qui un “disancoraggio” tra capitale sociale e politica, un diffuso disorientamento, e anche qui si riattiva la frattura centro-periferia: tuttavia, l’arrivo di un avversario come Berlusconi, a Roma, che “ripoliticizza” la frattura anticomunista, permette agli eredi del PCI di rallentare la crisi e permette a lungo la tenuta elettorale della sinistra. Ma i segni di uno scollamento lavorano in profondità, e trovano poi – con la nascita del PD – una loro piena espressione: non si può più parlare, oggi, di una “subcultura rossa”. Un’eredità secolare di cultura politica è stata dilapidata. Giustamente, Almegisti parla oggi, sia per il Veneto che per la Toscana, del permanere di specifiche forme di cultura politica, ma non più di vere e proprie “subuculture politiche territoriali”, nell’accezione rigorosa che ne è stata data a partire dai lavori di Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia, negli anni Ottanta.
“Leader senza partiti o partiti senza territori?”, è uno degli interrogativi che si pone Almagisti nell’ultimo capitolo del suo libro: la risposta rimane aperta. Nuove “fratture” sembrano delinearsi, in particolare quella che si produce a partire dal processo di globalizzazione, con i suoi effetti laceranti sul terreno della composizione sociale e sulle forme e i livelli della disuguaglianza economica (la faglia che si apre tra establishment e anti-establishmen): ma anche quelle fratture che si cominciano forse a intravvedere oggi, come contraccolpo di equilibri geopolitici globali molto instabili, per i quali si stenta a cogliere una via di stabilizzazione.. Sono fratture vecchie e nuove che, insieme, sono interpretate da nuovi attori politici, o che cercano, (e spesso non trovano, specie a sinistra), nuovi soggetti in grado di interpretarle. Ma un dato appare certo: dopo decenni di un eccessiva disinvoltura e “leggerezza” nei modi di trattare la “crisi dei partiti”, forse ora ci si rende conto che è stato pagato un prezzo alto: troppo spesso si è prodotto uno slittamento indebito tra l’analisi empirica che coglieva la” crisi” dei partiti e una svalutazione normativa dell’idea stessa di partito come “condizione di possibilità” di una democrazia. E si è alimentata così, anche nel senso comune e nella cultura pubblica, una sorta di profezia che si autoavvera. Il libro di Almagisti ci aiuta a comprendere pienamente il processo di disgregazione che ha colpito la democrazia italiana e che rischia di aggravarsi, se non tornano sulla scena partiti nuovi o rinnovati radicalmente, che certo non si illudano di poter far rivivere modelli del passato, ma che siano pur sempre partiti, che siano degni di questo nome
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