di Danilo Breschi
Churchill sosteneva che non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare. Questa spinta al cambiamento pare avere abbandonato il Vecchio Continente da alcuni decenni a questa parte. Così mi pare di poter interpretare il recente scritto di Paolo Prodi, significativamente intitolato “Il tramonto della rivoluzione” (il Mulino, 2015). Egli esplicita alla fine di questo breve ma assai denso testo la tesi secondo cui “non è che la civiltà europea sia aggredita dall’esterno ma sono le nostre istituzioni e la nostra stessa antropologia a essere entrate in crisi insieme alla capacità rivoluzionaria della nostra civiltà” (p. 107). Ora, Prodi utilizza il termine “rivoluzione” per indicare “un progetto di futuro come cammino dell’umanità verso la salvezza” (p. 103). Ne coglie dunque, correttamente, le matrici religiose, e in particolare quelle di carattere profetico-millenaristico di tradizione ebraico-cristiana. Ritiene che questo spirito rivoluzionario sia stato la molla del progresso indubbio che l’Europa ha vissuto sotto il profilo politico, sociale, economico e culturale. Dalla profezia si è passati all’utopia nel corso dei secoli, e in particolare nel lungo periodo di transizione dall’età di mezzo alla prima modernità, per usare convenzionali periodizzazioni storiografiche invalse in ambito europeo-occidentale. Prodi sottolinea, in particolar modo, il ruolo svolto dalla predicazione di Gioacchino da Fiore (1130 ca. – 1202), grazie al quale la protesta contro il potere non si rinchiuderebbe in una visione apocalittica, come si è soliti pensare, bensì “crea un’ideologia che predice e invoca un rinnovamento della società e della Chiesa” (p. 33). Soprattutto la predicazione gioachimita rompe con l’idea ciclica del tempo e dunque con una predilezione per l’idea restaurativa, e inoltre inverte il senso della storia così come inteso da molte religioni pre-cristiane e da certe letture medievali dello stesso cristianesimo. La storia non precipita, bensì si innalza, non ha l’andamento della vita di un qualsiasi organismo vivente, segnato dall’invecchiamento. Al contrario, la storia “ringiovanisce”, nel senso che “i piccoli e gli umili saranno i protagonisti dei tempi finali”, secondo quanto scrive uno studioso di Gioacchino da Fiore citato da Prodi (p. 34). Dunque, il vero destinatario delle preoccupazioni prodiane non è tanto la rivoluzione, quanto l’utopia moderna, contestazione dell’esistente e aspirazione insopprimibile ad una riforma radicale della società. D’altro canto, l’utopismo è il sintomo di una religione che, istituzionalizzandosi, non è riuscita a conquistare il monopolio del potere. In questo senso Prodi si richiama agli studi di Harold G. Berman, il quale ha collocato la prima delle “rivoluzioni europee” nel secolo XI, ai tempi dell’opera di riforma di papa Gregorio VII. Più in generale, tra XI e XIII secolo, nel fuoco della lotta delle investiture fra papato e impero, si consuma la separazione fra potere politico e potere religioso. Questo segna l’inizio di quel dualismo istituzionale, di quel pluralismo dei poteri, in costante tensione fra loro poiché nessuno in grado di soggiogare a lungo l’altro, che ha favorito la costruzione del sistema costituzionale occidentale. Nel conflitto fra i due poteri, politico e religioso (culturale o ideologico, avrebbe aggiunto Bobbio), se ne è inserito un terzo, quello economico-finanziario, localizzato nel mercato, ora in concorrenza ora in complicità con gli altri due. Nel pluralismo, che inizialmente è mera pluralità che ciascuno dei contendenti intende ridurre ad unità, omogeneità e conformismo, si rende necessario l’istituto del patto, e dunque del giuramento come criterio di investitura del potere. Un potere che, in conseguenza del fatto di essere preceduto e condizionato nel suo conferimento dal giuramento-sacramento (orizzontale e dal basso), “permette la crescita di rapporti politici condizionati ai comportamenti reciproci, alle situazioni concrete, alla ragione, allo specifico ministero o ruolo, e anche la nascita di rapporti plurimi di fedeltà” (p. 42). Sempre il “patto giurato” legittima il principio di resistenza, trasformandolo in un diritto che sarà poi costituzionalizzato. I soggetti pattizi possono denunciare la violazione dei contenuti dell’accordo fondativo e insorgere se non soddisfatti nelle loro richieste di ristabilimento dei principi e delle norme originarie su cui hanno prestato giuramento. Una minaccia attuale al dualismo istituzionale europeo-occidentale è data dalla invasione del diritto positivo in ambiti della vita un tempo non coinvolti dalla normazione statuale. Anche il foro interiore delle coscienze individuali rischia perciò di essere normato, con la conseguenza, denunciata già trent’anni fa da Jacques Ellul e riportata da Prodi, che “il rifugio assoluto nel diritto è mortale per la negazione del calore, dell’elasticità, della fluttuazione delle relazioni umane che sono indispensabili affinché un corpo sociale […] possa vivere e non solo funzionare” (p. 47). Secondo Prodi la continua, inesausta dialettica fra i tre poteri sopra elencati, sempre in lotta fra loro, ma anche in crescente ineludibile ibridazione reciproca, ha permesso la nascita della dottrina dei diritti umani e dei progetti costituzionali sfociati nelle grandi rivoluzioni di fine Settecento. Questa sarebbe l’essenza dell’Europa come civiltà: la “rivoluzione permanente”, da intendersi probabilmente nell’accezione churchilliana di mutamento per migliorare. Più propriamente, per adeguare il reale al razionale. Hegelianamente. Di qui il ruolo decisivo, epocale, svolto dall’illuminismo. Secondo Prodi, la grandezza della stagione dei Lumi non sarebbe quella di un modello astratto, e come tale esportabile a mo’ di meccanismo trapiantabile, bensì è il frutto peculiare di un plurisecolare processo culturale contrassegnato dalla distinzione e compresenza “della storia umana e della storia della salvezza”. Di qui sarebbe scaturito il pensiero rivoluzionario “capace di trasformare la profezia in utopia, di progettare la costruzione di un nuovo sistema sociale, politico ed economico basato sul diritto naturale e sulla libertà di coscienza contro il potere dominante” (p. 55). Un’utopia frutto sia dell’ibridazione, peraltro inintenzionale, sia dello scontro, del tutto intenzionale, fra attitudine religiosa-trascendente e attitudine ateo-secolare. Da non sottovalutare, poi, sarebbe quella ricerca della sicurezza che Montesquieu riconosceva essere natura e fine della libertà politica. Anche da una tale esigenza nascono le prime carte costituzionali, tipo la Magna Charta Libertatum, di cui quest’anno ricorre l’ottavo centenario. Anche qui risiede il miglioramento, inteso come emancipazione. Ed è anche qui che si incaglia, a mio avviso, l’identità europea e non soltanto, come ritiene Prodi, nel fatto che “l’era della tecnica” ci cancella qualsiasi visione del futuro che non sia inscritta nel progresso tecnologico. Secondo lo studioso bolognese, “nella politica come nella scienza è venuta meno la coscienza di una possibile rivoluzione dell’umanità, di un progetto di futuro come cammino dell’umanità verso la salvezza” (p. 103). Privi di cultura e coscienza storica, si insisterebbe su un presente percepito come eterno. Prodi ha probabilmente ragione del denunciare il fatto che “siamo ormai di fronte alla fine della storia come fondamento dell’educazione delle nuove generazioni mentre avanzano ogni giorno le discipline senza tempo, da quelle psicologiche e sociologiche a quella della comunicazione” (p. 100). In modo altrettanto probabile, la storia come azione di individui e di popoli si sta già incaricando di ricordare agli europei che il passato pesa e che la voglia di futuro è insopprimibile come la stessa vita in quanto istanza generativa. Prodi è convinto che quanto sta accadendo nel mondo islamico possa, paradossalmente, fungere da monito benefico per un mondo occidentale dominato dal “monismo del potere del consumo” (p. 117), tecnologicamente alimentato. Ritiene altresì che l’Islam stia esprimendo, nel suo travaglio interno di cui l’integralismo è un sintomo, un “richiamo al trascendente, un urlo immenso, un rimando irrazionale e un lamento” (p. 116), che dovrebbe essere ascoltato da un cristianesimo oramai marginalizzato nella cultura occidentale. Personalmente, mi pare azzardato affermare che “proprio dall’Islam viene un forte richiamo ai limiti del potere, ai diritti soggettivi di fronte a una realtà in cui – come nell’antichità precristiana – tempio, palazzo dell’autorità e mercato formano il nuovo monopolio del potere stesso” (ibid.). In altri termini, Prodi ci dice: il monismo del capitalismo tecno-finanziario, che sta fagocitando il plurisecolare dualismo europeo tra cielo e terra, può essere intaccato dalla sfida che il revival integralista islamico incarna alle porte e fin dentro le società occidentali. Una sfida che è culturale e antropologica e che dovrebbe far riscoprire agli europei l’essenza della loro civiltà. E qui, a mio avviso, Prodi non è chiaro e anzi confonde le acque. Usando disinvoltamente ora il termine di “rivoluzione” ora quello di “dualismo istituzionale” ora quello di “modernità”, e dunque di separazione fra politico e religioso, per indicare la specificità della civiltà europea, come se si trattasse di sinonimi o di momenti dialetticamente connessi, egli finisce per non aiutare una pur necessaria critica dei mali che affliggono le nostre società. Non mi convince, insomma, la ricostruzione che egli fa del concetto di rivoluzione, eccessivamente sottratto al confronto con il concreto svolgimento della storia europea degli ultimi tre secoli, almeno. Una cosa sono le “rivoluzioni” culturali e anche istituzionali prodottesi in epoca medievale e nella prima modernità. Una cosa ben diversa sono i progetti rivoluzionari maturati specificamente in Europa dalla fine del Settecento fino alla prima metà del Novecento nel continente europeo a seguito della Rivoluzione francese e delle concrete modalità e dinamiche storiche con la quale si sviluppò nell’arco di un decennio, dal 1789 al 1799. La contestazione dell’esistente, da cui muove lo spirito rivoluzionario, ha storicamente presentato anche una declinazione in termini apocalittici e pantoclastici, propri del profetismo secolarizzato e che la predicazione gioachimita non risolse una volta per tutte nell’utopia così com’è intesa da Prodi. Ammesso e non concesso che lo stesso Gioacchino da Fiore abbia davvero contribuito in tal senso. In altre parole, Robespierre e Saint-Just non furono Condorcet, Marx ed Engels non furono John Stuart Mill, e così via. Prodi non ricorda quella divisione cruciale che ha contraddistinto l’intera storia della sinistra europea: riformisti vs. rivoluzionari (o massimalisti). Parlo della sinistra in quanto area ideologico-partitica in cui l’ascendenza profetica si è maggiormente incarnata sub specie politicae (senza, però, dimenticare quanto agì sul nazismo e su certo fascismo nella prima metà del Novecento). Non introdurre queste ulteriori distinzioni ha come effetto la mancata rivalutazione di quel riformismo a cui credo anche Prodi preferisca richiamarsi. Una tradizione politica e ideologica che latita in Italia da troppo tempo, sia in versione socialdemocratica sia in versione liberale, ammesso che oggi sia possibile mantenere questa differenziazione tipicamente novecentesca. Storicamente, l’ibridazione tra religione e politica non sempre è stata all’insegna della dialettica, e non sempre ha partorito un compromesso istituzionale che ha mantenuto netta la separazione tra sfera individuale della coscienza e gestione del potere. Ben prima della minaccia tecnocratico-finanziaria, abbiamo avuto in Europa la concreta dominazione di dispotismi ideocratici che in quanto a monismo e monopolio dei tre poteri non sono ancora stati superati da nessun altro tipo di configurazione politico-istituzionale. Che grandi banche e tecnoburocrazie siano gravemente lesive delle libertà dei cittadini europei e occidentali è indubbio. Che a farci riscoprire l’importanza e l’urgenza di riequilibrare i rapporti fra politica ed economia, perché di questo si tratta e non di nuove “rivoluzioni”, possa essere il mondo islamico, mi sembra a dir poco una forzatura tanto sul piano della logica quanto su quello della storia. Che sia poi necessaria una “rivoluzione”, intesa nel senso generico di rovesciamento, di svolta netta, sul piano del modo di pensare e di valutare, dunque delle “coordinate antropologiche di fondo” (p. 8) di cui parla Prodi, è auspicio condivisibile. Non riesco però a intuire come l’Islam insorgente possa aiutarci in ciò, se non per innescare, con la paura amplificata dai media, una massiccia e inarrestabile domanda di sicurezza a cui solo restaurate sovranità nazionali, condite di retoriche nazionaliste, potranno dare parziale risposta. Di qui un ritorno prepotente alla statualità, foss’anche di taglio regionale, che, pur fra i mille vecchi problemi che risusciterebbe, avrebbe però l’effetto di ridare peso alla politica rispetto all’economia. In questo senso anche l’austerity europea può svolgere una funzione dialettica, nel senso hegeliano della negazione feconda, e l’attuale politica condotta dalla Grecia andrebbe letta più che altro in chiave nazionalista. Popoli stremati, per colpe in parte proprie in parte altrui, si affidano e sempre più affideranno a rappresentanti che solo alla difesa strenua e ottusa dei propri interessi sapranno concretamente rispondere. L’unico vero no-global possibile e praticabile parrebbe così essere il sovranista nazional-statuale.
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