di Alessandro Campi
Per quanto “pazza” e ingarbugliata possa apparire la crisi politico-istituzionale innescata dalla decisione di Salvini d’interrompere la sua collaborazione al governo col M5S, siamo arrivati ad un punto nel quale agli attori in campo – Quirinale e partiti – sembrano rimaste soltanto due scelte: il voto anticipato o la costituzione di un esecutivo “politico” sostenuto in Parlamento dal Pd e dai grillini.
Rispetto al caos prolungato che molti temono, l’esistenza di un’alternativa così secca è paradossalmente un segno di chiarezza, considerata anche l’impraticabilità delle altre soluzioni che sono state avanzate in questi giorni: dalla rinascita del “contratto” giallo-verde (un governo a guida Di Maio, ventilato da un Salvini in via di ripensamenti, che però difficilmente troverebbe i voti necessari al Senato) alla costituzione dell’ennesimo governo tecnico-istituzionale ispirato dal Colle (ipotesi da scartare visto che proprio i governi tecnici sono stati l’alimento ideologico del risentimento populista che ha sconvolto in pochi anni gli equilibri politici dell’Italia).
Il ritorno alle urne è ciò che chiedono, con diversa intensità e convinzione, la Lega di Salvini, la destra nazionalista della Meloni e quel che resta del vecchio mondo berlusconiano. Ma è una posizione, per quanto politicamente legittima, al momento formalmente minoritaria in Parlamento. Resa peraltro ancora più debole dall’argomento polemico utilizzato per sostenerla: vale a dire che la nascita di un governo diverso da quello giallo-verde rappresenterebbe un tradimento della volontà popolare. Ma come è stato spiegato mille volte, siamo una democrazia parlamentare: i governi non li decidono gli elettori, ma i loro rappresentanti eletti.
Sulla carta, dopo la fine traumatica del governo parlamentare di Conte e della maggioranza giallo-verde che lo sosteneva, ci sono invece i numeri per creare un nuovo esecutivo e per tenere in vita una legislatura che altrimenti rischia di morire assai prematura, come ha ricordato il capo dello Stato. Ma rispetto a questa possibilità, come si è visto nelle ultime ore con il balletto sul nome del possibile premier da proporre al Presidente Mattarella nei prossimi giorni, l’impressione è che sia il Pd sia il M5S stiano giocando col fuoco.
Dicono di volere l’accordo, ma danno l’impressione di sabotarlo con richieste o condizioni troppe ultimative. Più che ad una trattativa politica stiamo infatti assistendo ad un gioco fatto di tatticismi, veti reciproci, intenzioni non dichiarate, personalismi esasperati, colpi bassi e piccole furbizie. Quanto può durare un governo che dovesse nascere su queste basi? Ritarderebbe forse le elezioni per qualche mese, ma essendo percepito come una mera operazione di palazzo imploderebbe miseramente. Salvini, dal suo punto di vista, non aspetta altro. La collaborazione tra due partiti che per anni si sono avversati e pesantemente insultati non è ovviamente cosa facile. In effetti fa un po’ sorridere l’idea che i nemici giurati del sistema, con le loro manie cospiratorie e anti-scientifiche, possano ora andare a braccetto con gli esponenti per definizione della casta. Ma la politica ci ha abituati a ribaltoni e ripensamenti d’ogni tipo: basta ricordare quando Bossi dava del delinquente e del mafioso a Berlusconi salvo poi divenirne l’alleato e amico più fedele.
Resta tuttavia da capire il senso politico (e dunque l’utilità per l’Italia e gli italiani) dell’alleanza parlamentare alla quale si sta lavorando con la benedizione nemmeno troppo velata di una molteplicità di soggetti: dai vertici europei alla Chiesa passando per il sindacato redivivo. Dopo il discorso di Conte al Senato, l’antisalvinismo è parso l’unico collante emotivo tra i grillini che si considerano traditi dal vecchio alleato e la sinistra in cerca di un’occasione di riscatto, ma l’antisalvinismo – unito all’allarmismo a dir poco eccessivo e strumentale sulla deriva autoritaria della democrazia italiana – non può essere un programma d’azione convincente e soprattutto efficace.
Si tratta inoltre di mettere d’accordo partiti fortemente divisi al loro interno e privi di una linea coerente. Il mondo grillino, abituato ad essere eterodiretto e spesso monolitico come lo sono i movimenti settari guidati da un guru, in questo momento appare frammentato come mai. Casaleggio (con Di Battista) non disdegna l’ipotesi di tornare alle urne nel timore che l’intesa con il Pd faccia perdere voti a sinistra come l’accordo con la Lega li ha fatti perdere a destra. Conte guarda alle tecnocrazie europee e pensa a sé come futura guida di un movimento progressivamente liberatosi dal carisma dei fondatori. Di Maio sembra provare qualche nostalgia per la diarchia con Salvini nata nel segno del “cambiamento” e della lotta alla vecchia partitocrazia. Grillo, tornato visionario, immagina che dalla contaminazione ideologica tra Pd e M5S possa nascere la sinistra autenticamente progressista del futuro: ecologista, post-industriale, cosmopolita, partecipativa, in grado di assicurare benessere collettivo e sviluppo sostenibile grazie all’uso intelligente del sistema informatico globale. Senza considerare i sinceri malumori espressi in rete dalla base e dai militanti, che ancora non sanno se potranno dire la loro su un’operazione politica tanto delicata attraverso la piattaforma Rousseau. Finisce qui la democrazia diretta grillina?
Quanto al Pd, questa crisi è servita da innesco per il solito e mai risolto conflitto tra i renziani sempre in odore di scissione e i custodi dei valori della storica “ditta” post-comunista. Entrambi dicono di voler l’accordo coi grillini, beninteso per senso di responsabilità e nell’interesse del Paese, ma entrambi temono che il leader dell’altro schieramento interno abbia qualcosa da nascondere o un secondo fine: Zingaretti il ritorno surrettizio alle urne per acquisire finalmente il controllo dei gruppi parlamentari (da qui le sue titubanze su Conte bis che tanto hanno irritato i grillini, al punto da mettere in forse la trattativa in corso); Renzi un suo partito personale quando si sarà dimostrato che il Pd, grazie al suo malizioso assenso, ha stretto un patto innaturale e improduttivo con il M5S.
In questo quadro si comprendono i timori e le insistenze del Presidente della Repubblica, che vuole non solo un nome autorevole per l’incarico di Presidente del Consiglio ma un accordo politico e di programma chiaro e coerente che al momento tuttavia ancora manca, soprattutto sui temi economici e sociali e su quelli legati al lavoro e alle politiche industriali. E quel poco che s’intravvede, e fa paventare un ritorno a logiche assistenzialiste e al consenso acquisito attraverso la spesa pubblica, non entusiasma. Ci sono ancora pochi giorni per mettere in piedi un accordo politicamente serio e convincente, al di là dell’attribuzione delle varie poltrone. Gli ultimi rumori danno un cedimento del Pd sul nome di Conte come premier in cambio di dicasteri più importanti di quelli ottenuti a suo tempo dalla Lega.
Dal lato grillino sarebbe la vittoria dell’asse Grillo-Conte su quella Casaleggio-Di Maio. Dal punto di vista dei democratici viene da chiedersi quanto questa operazione, vista in prospettiva, convenga ad un partito che forse dovrebbe trovare il coraggio di dare la caccia ai voti dei grillini nelle urne piuttosto che rivitalizzarli nelle aule parlamentari nel momento della loro massima crisi di consensi. Vedremo presto cosa verrà fuori dai conciliaboli in corso. Ma se si rischia il pasticcio, meglio il voto, come lo stesso Mattarella ha sostenuto sin dal primo momento.
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