di Carlo Marsonet
Non passa giorno senza che qualcuno, tanto sui quotidiani, quanto in qualche trasmissione televisiva pronunci la parola “crisi”. A dar retta a queste voci capillari, sembra quasi che la direzione verso cui ci si è instradati sia irreversibile, necessariamente e definitivamente determinata. Se così fosse, rimarrebbe ben poco da fare all’uomo, giacché la vita non sarebbe più degna di essere vissuta. Fagocitata da uno stato permanente di svilimento e apatia, essa sarebbe ridotta a una monotona e periclitante passeggiata verso il crepuscolo. Per nostra fortuna, il futuro, malgrado chi vorrebbe resuscitare vecchie visioni dal sapore tribale, magari abbellite e rese diversamente luccicanti, oppure prospetterebbe un avvenire all’insegna dell’umanitarismo stolido e velatamente comunistico, rimane aperto. La palla, in buona sostanza, è nelle mani di chi in definitiva fa la storia, compone le trame quotidiane che, sommate, danno vita a quell’intelaiatura che nel lungo periodo diventa storica.
In un gustoso volumetto che riesce a unire rigore analitico e scorrevolezza, senza dunque appesantire o annoiare il lettore, Danilo Breschi, storico delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma, dipinge un quadro che, di primo acchito, può sembrare cupo e atro, ma che a ben guardare semina umili ma solide tracce per ritrovare – o almeno per provare a ritrovare – la strada di casa. Meglio di niente. Le fondamenta della civiltà europea (Mauro Pagliai Editore, 2017) ci aiuta a guardare dentro noi stessi, a capire da dove veniamo e, di conseguenza, dove possiamo andare, senza smarrire quello che è stato finora, correggendo la direzione quando necessario. Dopo tutto, come lo stesso Autore riporta circa a metà del libro, Einstein nel 1931 scrisse che «La crisi è la più grande benedizione per le persone e per le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere “superato”». E così seguitava a scrivere: «L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita. È una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla».
La questione principale, allora, risiede nel non baloccarsi nell’idea che la storia ha una direzione pre-impostata, mossa o da ideologie “scientifiche” o da forze oscure conosciute da pochi eletti. L’individuo ha in sé quell’alito vitale che lo rende capace di modificare il tragitto che, in precedenza, si è imboccato. Attraverso la riscoperta del suo essere in grado di modificare il mondo, anche solo mediante azioni quotidiane semplici e modeste, l’uomo con il libero arbitrio di cui è provvisto può fare molto, se lo vuole. E il punto è questo. Ciò che appare è un paesaggio un po’ desolante di individui spaesati, dediti esclusivamente alla propria piccola sfera, come se non fosse, al contrario intimamente bisognoso del prossimo per progredire o anche solamente per essere ciò che è. L’uomo esiste solo in società e si fa con la cooperazione, per riprendere un discorso caro ai moralisti scozzesi (cui, forse, bisognerebbe prestare un po’ più ascolto). Quello che manca molto spesso all’individuo contemporaneo, inebetito e frastornato da miriadi di informazioni – Breschi, con lo sagacia mordace che contraddistingue la sua “toscanità”, scrive : «C’è una bulimia di informazioni, mi verrebbe da dire: infornazioni, perché è come se ti infilassero nel forno elettrico ogni volta che sei bersagliato da notizie, che magari è colpa tua, di te che le hai cercate come pane quotidiano. E da predatore finisci, come sempre preda. Infornato. Altro che informato!» – è la consapevolezza della radicale dipendenza dall’altro, del suo essere intrinsecamente sociale, bisognoso dell’aiuto altrui: non solo per ottenere beni e servizi di cui necessita, ma anche e soprattutto poiché è mediante la vita in mezzo ad altri simili che impara, come scriveva Popper, a essere un “io”, unico e irripetibile.
La crisi che si vive, secondo l’Autore, e secondo chi scrive, è una crisi di identità. Uno sbandamento frutto di diversi elementi corrosi, sfilacciati e consunti. Storia e politica, religione ed educazione: sono questi i quattro perni che Breschi cerca di sviscerare nel suo libro, partendo dal presupposto che, com’egli stesso si premura di citare, Guglielmo Ferrero scriveva che «la civiltà è uno sforzo che l’umanità compie per liberarsi dalle paure che lo tormentato». E il Nostro prosegue asserendo che «Alla paura del declino si risponde con quell’impegno morale e culturale che si chiama civiltà». Non si può che condividere le parole di Husserl, secondo cui «il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza». Un infiacchimento generalizzato e pervasivo che svuota il nostro Continente, il quale non può essere banalmente risolto nelle anodine e spersonalizzate istituzioni dell’UE, è percepibile in modo piuttosto evidente. Per dirla con Salvador de Madariaga, «Cristiana nella sua volontà, l’Europa è socratica nella sua mente»: ma cosa rimane di questa grandiosa unicità? Pressoché nulla, giacché, come Breschi scrive, «Non crede più in se stessa, e il mancato aiuto di una religione che si senta (anche) europea, perché nata dall’incontro tra fede e ragione, aggrava la situazione». La crisi europea, in definitiva, è nichilista, giacché non si crede più in qualcosa che va al di là del quotidiano, non si percepisce più quel senso del limite che è doveroso affinché una società libera possa effettivamente esistere, rifuggendo il narcisismo imperversante che obnubila le menti.
Ciò che servirebbe per vincere il disorientamento che attanaglia l’Occidente tutto è la riscoperta della propria storia, fatta di luci, di cui non ci si deve vergognare per non urtare sensibilità diverse, ma anche di ombre, che non devono offuscare però le prime; il tornare padroni di un lessico politico basilare, a partire dall’idea di una democrazia che non può essere “antica” o diretta, né tantomeno “popolare” o “illiberale”, del concetto di compromesso essenziale in una liberal-democrazia adulta e matura, fino ad arrivare alle eterne e mai insolute dispute tra chi tira da una parte all’altra concetti come libertà ed eguaglianza; la consapevolezza che credere in qualcosa di trascendente, che va al di là dell’umana comprensione non è una debolezza, ma semmai implica l’umile e opportuno riconoscimento di quanto minuscoli, deboli e gracili siamo, senza contare che, come ammoniva Tocqueville, lecito è dubitare «che l’uomo possa mai sopportare contemporaneamente una completa indipendenza religiosa e una totale libertà politica; e sono incline a pensare che, se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda». Infine, e non poteva essere altrimenti, il ruolo forse maggiore è giocato dall’educazione dell’individuo. Un’educazione che comprende, ovviamente, lo studio dei classici e di chi ha fatto progredire la storia umana attraverso il proprio genio e la propria forza creativa, ma non solo. Infatti, senza una educazione alla libertà e al senso del limite, nulla può essere davvero raggiunto. Ciò che manca primariamente, quindi, è la disponibilità ad affrontare la vita, le sue asperità e i suoi rischi esperendo quella libertà che ci rende effettivamente individui meritevoli della stessa.
Carlo Marsonet, PhD candidate in “Politics: History, Theory, Science”, Luiss Guido Carli, Roma
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