di Alessandro Campi
Il quadro politico italiano si riassume in questi due divertenti paradossi. Da un lato abbiamo le sardine che manifestano contro l’opposizione invece che contro il governo (un caso unico al mondo). Dall’altro abbiamo Di Maio, capo politico del M5S, che conduce una quotidiana opposizione al governo di cui fa parte ma alla cui nascita, diversamente da Grillo, non ha mai creduto veramente.
Come evolverà il sardinismo, lo vedremo presto. Il movimento ha annunciato un congresso che potrebbe preludere alla costituzione di una forza politica organizzata,
di Alessandro Campi

Il quadro politico italiano si riassume in questi due divertenti paradossi. Da un lato abbiamo le sardine che manifestano contro l’opposizione invece che contro il governo (un caso unico al mondo). Dall’altro abbiamo Di Maio, capo politico del M5S, che conduce una quotidiana opposizione al governo di cui fa parte ma alla cui nascita, diversamente da Grillo, non ha mai creduto veramente.

Come evolverà il sardinismo, lo vedremo presto. Il movimento ha annunciato un congresso che potrebbe preludere alla costituzione di una forza politica organizzata, non necessariamente un partito. I giovani in piazza senza bandiera in questo momento godono di molte simpatie, ma la simpatia è un moto dell’anima, non una categoria politica. Produce foto sulla stampa e inviti nelle trasmissioni televisive, non voti alle urne. Per restare ai paradossi, quello che è nato attraverso la mobilitazione in rete è al momento una forma di populismo anti-populista che tiene insieme goliardismo giovanilista, mimetismo ideologico (parliamo di una sinistra diffusa che vorrebbe farsi passare per un movimento a-politico o politicamente trasversale) e una certa aggressività contro gli avversari derubricati senza distinzioni a pericoli fascisti. Tutto il resto è da costruire: dalla leadership a un programma che non sia l’ennesima (generica) richiesta di partecipazione.

Ma vedremo presto anche come evolverà l’esecutivo, sul cui capo si vanno addensando nubi crescenti. L’eccessiva eterogeneità degli alleati avrebbe consigliato la stesura di un accordo politico nero su bianco: con l’indicazione delle poche cose da fare insieme, soprattutto in materia economico-sociale, e lasciando perdere tutto ciò che era potenzialmente fonte di polemica e disaccordo.  Una sorta di contratto di governo giallo-rosso. Esattamente quel che vorrebbero fare Grillo e Conte a partire dal prossimo gennaio, superato lo scoglio della legge di bilancio e del voto amministrativo in Emilia Romagna, sempre che non sia troppo tardi.

Le polemiche sulla riforma del cosiddetto fondo salva-stati non promettono infatti nulla di buono. Laddove il problema non è rappresentato dagli attacchi ai nuovi accordi portati da Meloni e Salvini, ma dal fatto che i loro dubbi sono condivisi da Di Maio. Anche ieri, nella sua informativa alle Camere, il premier Conte ha provato a glissare il nodo politico che rischia di soffocarlo: ha denunciato le “accuse infamanti” di tradimento indirizzate dalle opposizioni nei suoi confronti, ingiustificate dal momento che il trattato non è ancora stato sottoscritto, ma ha sorvolato sul fatto che a chiedere la modifica sostanziale della riforma del Mes concordata a livello europeo è un pezzo importante del M5S, capeggiato proprio da Di Maio, senza dimenticare le riserve che su di essa nutrono anche gli alleati della sinistra radicale.

Il problema dei grillini, che spiega l’irrigidimento del loro capo politico, è in questo momento duplice: tenere fede alle promesse elettorali per evitare di creare ulteriore scontento tra i loro storici sostenitori; evitare che siano Lega e Fratelli d’Italia a intestarsi la difesa degli “interessi nazionali”. Il problema di un accordo negoziato dall’Italia in condizioni di relative debolezza e i cui criteri di attuazione non appaiono del tutto chiari è in effetti reale: cosa accadrebbe al nostro debito pubblico se mai un giorno dovessimo trovarci nella condizione di dover attingere al fondo salva-stati?

Dubbi condivisi da molti, anche tra economisti ed esperti di finanza, il che fa anche capire, per converso, quale sia il problema del Partito democratico: di apparire, agli occhi di una fetta crescente di opinione pubblica, il fautore di un europeismo retorico, acritico e passivo, sin troppo subalterno agli indirizzi che provengono formalmente da Bruxelles e in modo surrettizio da Parigi e Berlino. Se è vero, come ieri ha sostenuto Conte, che su questa delicata materia il Parlamento resta sovrano, perché il ministro dell’economia Gualtieri ha insistito nel presentare la riforma del Mes come n0n più negoziabile se non nei dettagli secondari?

Ma i fronti di scontro e attrito interni al governo come si sa sono anche altri. Negli ambienti della renziana Italia Viva (cui potrebbero aggiungersi pezzi importanti del Pd) circola ad esempio la tentazione di sostenere l’iniziativa parlamentare con la quale Forza Italia intende ritardare l’entrata in vigore della cosiddetta “prescrizione lunga”. Per i grillini quest’ultima è, dopo il taglio dei parlamentari, un altro simbolismo da agitare: la giustizia come persecuzione giudiziaria in nome del popolo, il processo come vendetta sociale e l’imputazione come stigma da portare a vita. La sinistra cosiddetta riformista (e come tale anche fautrice dello Stato di diritto) cederà anche stavolta come già ha fatto sul tema dei costi della politica?

Senza contare quel che è successo l’altra notte durante la maratona nella Commissione finanze della Camera sul decreto fiscale. Il ddl anticorruzione, quello cosiddetto “spazzacorrotti”, come è noto estende a fondazioni e associazioni gli obblighi di trasparenza sulle donazioni previsti per i partiti politici. Con un emendamento presentato dal Pd, votato anche da M5S e Leu ma fortemente contrastato da Italia Viva, si è cercato nottetempo di rinviare al 2021 l’entrata in vigore di questa norma. Per Renzi, dopo le accuse della magistratura e la campagna di stampa contro la fondazione Open, è stato facile denunciare l’eccesso di ipocrisia e la doppia morale dei suoi alleati di governo. Il caso è rapidamente rientrato, dopo che lo stesso Di Maio ha denunciato il voto che rinviava la norma come una “porcheria che va tolta”. Ma resta l’impressione che la corda sia ormai troppo tesa e che dunque possa davvero spezzarsi da un momento all’altro.

A meno che, nel tentativo di neutralizzare tutti i possibili fronti di lotta tra alleati, non si scelga la strada dell’immobilismo, della dilazione permanente e del galleggiamento: non fare, o fingere di fare, per evitare di litigare sul serio, nell’attesa che la legislatura faccia il suo corso. Il che ci porterebbe al paradosso finale della nostra politica: l’aver affidato la guida dell’Italia a un non-governo retto da una maggioranza parlamentare improbabile nel timore che, andando al voto anticipato, ne avremmo avuto uno pessimo ancorché indicato dagli elettori. Combattere il dilettantismo populista con l’insipienza democratica e col trasformismo parlamentare: davvero una pessima ricetta.

 

*Apparso su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 2 dicembre 2019

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