di Luca Marfé
L’Iran da un lato, l’impeachment dall’altro, le elezioni sullo sfondo.
È un anno di fuoco quello che si staglia all’orizzonte degli Stati Uniti.
Nel cuore del caos, neanche a dirlo, Donald Trump.
Caos di cui, se per assurdo esistesse una scuola, Trump sarebbe maestro, preside, direttore, tutto.
L’IRAN
«Il mondo è un posto più sicuro adesso».
Così il presidente americano sull’uccisione del generale iraniano Suleimani.
Fatto sta che lo stesso mondo di cui parla Trump sembra essere sul ciglio dell’abisso di una terza guerra mondiale.
Ma il tycoon ostenta sicurezza e addirittura rilancia:
«È una missione che avrebbero dovuto portare a termine le precedenti amministrazioni già molti anni fa».
Come a voler dire: “l’ho fatto io, lo abbiamo fatto noi e dunque ce ne vantiamo pure”.
Una sintesi, e più in generale un atteggiamento, che piace tanto ai suoi. Tipico di una destra conservatrice quasi ansiosa di punire chiunque osi sbarrare la strada agli Stati Uniti o, peggio ancora, metterne a repentaglio la sicurezza nazionale.
Eppure Trump la guerra non la vuole.
L’intelligence a stelle e strisce deve essere venuta a conoscenza di rischi imminenti, il risultato è stato portato a casa e adesso si spera che non ci siano conseguenze.
La tensione però, almeno a parole, continua a salire. Parole che si rincorrono non soltanto tra America e Medio Oriente, ma incredibilmente anche tra Studio Ovale e Pentagono.
«Siamo pronti a colpire i siti culturali iraniani», tuona @realDonaldTrump su Twitter.
«Sarebbe un crimine di guerra, agiremo nel rispetto del Diritto Internazionale», risponde il segretario della Difesa Mark Esper, costretto a smentire anche un generale dei Marines, tale William Seely, sul ritiro delle truppe americane dall’Iraq.
Tornando all’Iran, invece, con la morte di Soleimani muore anche la diplomazia.
E le dichiarazioni, e le minacce, non si contano nemmeno più.
L’IMPEACHMENT
Riprendono i lavori dopo la pausa natalizia e c’è una novità enorme: John Bolton vuole testimoniare.
L’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, “falco” della destra, prima nominato e poi licenziato da Trump, si è reso disponibile per eventuali deposizioni qualora il Senato dovesse citarlo in giudizio.
Una mossa che infiamma il dibattito attorno alla linea dei repubblicani che vorrebbero invece barricarsi dietro le mura di una chiusura totale rappresentata dalla loro maggioranza.
Ad ogni modo, resta assai poco probabile, se non oggettivamente impossibile, che la crepa diventi un crepaccio.
I democratici, però, ci sperano e cavalcano l’episodio nel tentativo di far vacillare, almeno a livello estetico, la fedeltà dei rivali politici nei confronti dell’odiato inquilino della Casa Bianca.
CONCLUSIONI
Le due vicende si mescolano e l’apoteosi è raggiunta nello scontro, che si consuma ancora una volta su Twitter, tra Donald Trump e il Comitato degli Affari Esteri della Camera che in un botta e risposta surreale si affrontano a muso duro sui poteri della guerra, sulla Costituzione degli Stati Uniti d’America e su un presidente che, no, non può pensare di comportarsi come fosse un «dittatore».
caos, interno e internazionale, nel quale The Donald sembra quasi sguazzare.
Un caos che potrebbe valere, neanche tanto paradossalmente, una rielezione.
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