di Paolo Quercia
Franco Venturini in un suo editoriale sul Corriere della Sera del 9 gennaio ha ben centrato il problema libico dell’Italia, tracciando un’ottima analisi delle nostre mancanze di politica estera. Lascia però a nostro avviso troppo spazio all’illusione che la soluzione della nostra mancanza possa essere colmata dall’Unione Europea, invocando una “coalizione italo-tedesca-francese-britannica-forse spagnola” che possa inserirsi nel caos libico con una chiara linea politica, tenendo a portata di mano anche l’opzione militare. Ciò consentirebbe all’Europa non solo di ottenere risultati concreti in Libia ma anche di contare di più nel mondo.
Il Corriere della Sera affronta la questione libica rilanciando il tema dell’Europa e la sacrosanta richiesta, che l’Italia ha sempre sostenuto, che essa parli con una sola voce in tema di politica internazionale. Questo è giusto che resti una delle principali richieste che l’Italia deve fare ai suoi partner europei. Tuttavia, nel caso concreto della Libia, non dobbiamo commettere l’errore di fare una inversione logica tra il livello nazionale e quello europeo. E dobbiamo essere ben consapevoli non solo di quello che l’Europa è ma anche di quello che vuole essere e di ciò che non vuole o non può essere. Il realismo è d’obbligo tanto nella politica estera quanto in quella europea.
Dallo studio del processo di integrazione europeo, dall’analisi della politica estera degli Stati membri, dall’analisi delle Common Foreign and Security Policy (CFSP) e della Common Security e Defgence Policy fino alla lettura della EU Global Strategy, emerge con chiarezza che l’Europa non ha mai cercato né probabilmente è in procinto di farlo un ruolo per contare nel mondo. Per l’Italia il caso della Libia è si una questione europea, ma in un senso diverso: non è l’Europa che sta cercando di avere un ruolo in Libia per contare di più nel mondo ma è piuttosto l’Italia che è costretta ad avere un ruolo in Libia se vuole contare qualcosina in più in Europa.
In questo dilemma è racchiuso il duplice dramma geopolitico dell’Italia. Dramma di cui il nostro governo – ma neanche l’intero parlamento né la più ampia pubblica opinione – appaiono essere consapevoli. Perché viene chiaramente sottovalutato il profondo legame che esiste tra l’inazione italiana in Libia e la marginalizzazione italiana in Europa.
Ciò è ben evidenziato dalla fiducia ingenua con cui attendiamo, anche nel caso della Libia, un intervento dell’Europa. Fiducia ingenua che manifesta intanto un complesso di inferiorità – non sempre giustificato nei confronti dei partner europei – ma soprattutto l’incapacità di portare a termine una semplice analisi strategica di una situazione di crisi internazionale e una valutazione delle istituzioni europee e del loro reale funzionamento.
A noi pare che la politica estera europea, per non parlare di quella di sicurezza, non esista in natura ma sia piuttosto un prodotto di sintesi, generato nelle stanze – e spesso ahimè nei corridoi – dei palazzi dell’Unione Europea, in quel grande laboratorio di statualità artificiale dove ciascun Paese membro porta i propri elementi chimici, racchiusi nelle formule delle proprie politiche nazionali.
La politica estera europea altro non è che una grande Tavola Periodica di Mendeleev degli elementi nazionali: è cioè un criterio ordinatore di elementi che già devono esistono in natura, e che possono entrarvi solo perché esistono. Il compito della tavola è quella di ordinarli attraverso criteri armonici. Fuori di metafora renderli euro-compatibili. Poco o nulla di più, per ora.
Ecco dunque che ogni volta che invochiamo che l’Europa deve parlare ad una sola voce, ossia invochiamo la mitica coesione europea su un tema di politica estera o di sicurezza, dobbiamo essere ben consapevoli che ciò vuol dire fare uno sforzo di europeizzazione di quelle che devono prima essere consolidate posizioni di politica estera nazionale.
L’europeizzazione di queste posizioni di politica estera nazionale altro non è che un laborioso e faticoso processo di moderazione, arrotondamento e – soprattutto – mercanteggiamento bruxellese non dei propri interessi nazionali (auspicabilmente !) quanto delle proprie azioni di politica estera nazionale. Azioni che devono dunque pre-esistere alla politica europea in quanto ne sono elemento costitutivo. Spesso, in moltissimi, ne sono addirittura il precursore e l’attivatore ed, in loro assenza, prevale l’inazione (dell’Europa, ma non dei singoli Paesi europei).
Questa gerarchia nazionale/europeo nei temi di politica estera e di sicurezza è una specifica qualità della costruzione europea e della stessa volontà politica che la pervade. È l’Europa stessa che si aspetta, anzi pretende, dagli Stati membri che ciascuno di essi porti in dote degli assetti nazionali di politica estera e di sicurezza da integrare e coordinare con le azioni già esistenti degli altri Paesi, al fine di costruire un’azione europea comune. Un’azione che necessariamente è “di secondo livello”. Quando critichiamo l’Unione Europea che non agisce, in realtà stiamo criticando uno o più singoli Paesi membri che non sono capaci di muovere l’intera Unione attraverso una loro politica nazionale.
Il primo mattone della politica estera europea è dunque inesorabilmente un mattone nazionale. Ciò presuppone che ciascun Paese debba, sui singoli dossier internazionali, aver costruito un proprio percorso strategico. Che come tutti i percorsi strategici è fatto di una triade obbiettivi-risorse-azione cui vanno conseguiti, in un ambiente avverso, risultati credibili e duraturi. È importante in ciò essere consapevoli che il gioco europeo rende tutto più difficile in quanto impone alle politiche nazionali il vincolo esterno della euro-compatibilità.
È ben chiaro che noi italiani vorremmo disfarci della nostra residua sovranità più velocemente di quanto gli altri Paesi vorrebbero impossessarsi della nostra. Ma questo non deve distrarci dall’obbligo del realismo politico anche – anzi soprattutto – negli affari europei. Siamo obbligati a vedere l’Unione Europea per quello che ancora è, ossia un livello supplementare delle politiche estere e di sicurezza nazionali, e non come un loro sostituto. L’Europa non è stata costruita per agire da surrogato delle debolezze nazionali ma come moltiplicatore delle forze dei singoli Paesi membri. Può non piacerci ma tale è. Anzi in futuro questo carattere sarà sempre più accentuato e visibile.
Per tantissimi anni, ben prima della tragica disavventura libica, questo miraggio di una Europa così differente rispetto all’Europea reale è stato un grave errore di miopia ed ingenuità della politica italiana, non solo di quella estera. Anche per questo errore di prospettiva siamo oggi in difficoltà con il dossier libico e pensiamo di essere traditi dall’Europa. Ma non c’è stato nessun tradimento, se non quello nostro dei fardelli di una sovranità che ormai tanto ci pesa portare.
Nel caso della Libia, questo approccio di voler fare i mediterranei con le teste dei nordici (anzi di voler far fare ai nordici i mediterranei che noi non vogliamo o non sappiamo più fare) è parte importante di molti fallimenti diplomatici che l’Italia ha raccolto dalla Conferenza di Palermo ad oggi. Certo, possiamo dire che è una disfatta dell’idea di Europa che avremmo voluto più che dell’Italia che abbiamo. Ma è una ben magra soddisfazione. Il nostro problema libico è stato forse quello di avere creduto troppo poco in noi stessi e troppo in quello che l’Europa non può essere.
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