di Alessandro Campi
Per comprendere la politica italiana recente bisogna partire dalla distinzione tra “fatti” ed “eventi”. I primi sono le cose che accadono e che non sempre dipendono dalla nostra volontà e dalle nostre azioni: sono situazioni o accadimenti che una volta realizzatisi non possono essere più modificati. Sono soprattutto qualcosa di tangibile, concreto e reale: più sono clamorosi e significativi e più sono destinati a produrre effetti (e ad essere ricordati).
I secondi sono avvenimenti o fatti costruiti ad hoc, che per definizione esauriscono la loro funzione e il loro significato nel momento stesso in cui si svolgono e si realizzano. Hanno perciò un carattere volatile e quasi effimero, a dispetto del valore eclatante che sul momento possono assumere (e delle discussioni o polemiche, peraltro quasi sempre estemporanee, che sono in grado di suscitare). L’evento non è un grande fatto, ma un fatto reso grande – cioè momentaneamente importante – dalla macchina organizzativa e propagandistica che lo alimenta, o dalla finalità strumentale che lo determina. Un grande fatto difficilmente si dimentica, di un grande evento, esauritasi la ragione che l’ha prodotto e svanito lo stupore che ha generato, si finisce per rammentare poco o nulla. I fatti si sommano, gli eventi si elidono: quello del giorno dopo fa scordare quello del giorno prima.
La distinzione è sfumata e forse un tantino macchinosa, ma sperabilmente intuitiva (e si spera anche convincente). Nel caso dovesse servire un esempio per capirci meglio, eccolo: la liberazione di Silvia Romano dopo un anno e mezzo di prigionia nelle mani dei fondamentalisti musulmani di al-Shaabab è un fatto, politico e di cronaca al tempo stesso; il suo arrivo all’aeroporto di Ciampino, in abito tradizionale islamico, accolta in forma ufficiale dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli esteri, oltre che da una selva di fotografi, cineoperatori e giornalisti, bene, questo è un evento. Vale a dire una mera rappresentazione: non politica simbolica come l’abbiamo conosciuta nel Novecento secolo delle ideologie, ma pura messa in scena secondo un format finalizzato a strappare applausi.
La politica, tradizionalmente intesa, dovrebbe confrontarsi coi fatti, reagire ad essi e possibilmente produrli (una decisione che non genera fatti è una non-decisione). La politica odierna, quella italica in particolare, si preoccupa invece di produrre eventi, ovvero parte da un “fatto” per trasformarlo in un “evento”, nella convinzione che solo quest’ultimo può assicurare, se ben organizzato e ben gestito sul piano della comunicazione, ciò che ai politici in fondo importa di più: il consenso a qualunque prezzo, premessa indispensabile per il proprio mantenimento al potere.
Gli ultimi mesi lo hanno dimostrato chiaramente. La preoccupazione maggiore che sembra muovere la nostra classe politica, di maggioranza o d’opposizione, è quella di creare eventi, piccoli o grandi, reali o virtuali, in grado di catturare l’attenzione dei cittadini-elettori. O, per meglio dire, di colpirne l’immaginazione e di stuzzicarne la fantasia, giocando sul loro lato più emozionale e facendo leva sulle loro ansie.
Sono eventi, studiati accortamente a tavolino e finalizzati a radicalizzare l’opinione politica pro o contro le sue opinioni, i bagni di folla di Salvini o le sue esternazioni sui social. Sono eventi, vòlti a rafforzare l’immagine dello statista solitario che vigila sulla salute del popolo in una situazione di grave emergenza sanitaria, le conferenze stampa serali tenute dal Presidente del consiglio nei mesi della pandemia. Sono eventi – ovvero una elaborata teatralizzazione – i briefing quotidiani svolti dalla Protezione civile nello stesso periodo per aggiornare gli italiani col bollettino dei morti, dei contagiati e dei ricoverati. E cos’altro sono gli imminenti Stati generali dell’economia, che dovrebbero addirittura innescare un nuovo boom economico per l’Italia, se non un Grande Evento per eccellenza?
Ma anche la politica extra-istituzionale (quella promossa dalla cosiddetta società civile) non ragiona ormai se non per eventi: fatti cioè che siano altamente notiziabili, che sia possibile tradurre in una forma scenica possibilmente di massa. Sono eventi le mobilitazioni di piazza delle Sardine, appuntamenti politici sempre a metà strada tra la kermesse di partito ben organizzata e il flash mob spontaneo. Sono eventi le proteste, talvolta pacificamente pittoresche, talaltra aggressive e minacciose, organizzate in questi giorni da occasionali capi-popolo intenzionati a giocare sulla rabbia crescente degli italiani. Resterà qualcosa di tali eventi, lasceranno una qualche eredità?
Attenzione a non confondere la politica degli eventi odierna con la spettacolarizzazione della politica che è una tendenza vecchia di alcuni decenni. Quest’ultima (che può essere fatta risalire già al Craxi dei faraonici congressi di partito e che ha avuto in Berlusconi il suo campione indiscusso) serviva a rafforzare l’immagine pubblica del leader sfruttando i modelli comunicativi tratti dal marketing commerciale, ma non annullava o sostituiva i contenuti della politica e le sue specifiche modalità d’azione.
Oggi il contenuto dell’evento sembra invece coincidere con la forma assunta da quest’ultimo. Conta la rappresentazione in quanto tale, per il clamore mediatico (spesso istantaneo e assai breve) che può produrre, assai meno importano i contenuti che attraverso di essa vengono veicolati.
L’evento deve attrarre l’interesse di un pubblico di suo già sottoposto ad un’infinità di sollecitazioni, deve creare emozioni, suscitare reazioni immediate, tenere alta l’attesa del pubblico. Il vantaggio dell’evento è che, se ben allestito o pensato secondo un format comunicativo e scenico efficace, riesce effettivamente a catturare l’attenzione più di qualsiasi nudo o semplice fatto. Il suo limite è che una volta terminato rischia di lasciare poco dietro di sé, di venire superato o reso obsoleto da altri eventi, nella logica bulimica, compulsiva e autodistruttiva che caratterizza la comunicazione (anche quella politica) e ormai anche la politica in quanto tale.
Sull’onda del Maggio francese, la celebre coppia filosofica Deleuze & Guattari definì gli eventi politici di massa di quel periodo – a partire dalle grandi manifestazioni studentesche – come “concatenamenti collettivi corrispondenti alle nuove soggettività” che andavano emergendo nella società. Tanta sofisticatezza concettuale rischia oggi di apparire un’inutile spreco d’intelligenza. Gli eventi messi in scena dalla politica italiana odierna per compensare il suo vuoto progettuale e decisionale sono, bene che vada, qualcosa a metà tra il sensazionalismo ad uso dei media e l’usa e getta consumistico che caratterizza ai giorni nostri tutte le forme di produzione simbolica.
La ricetta contro questa deriva? Semplice, tornare ai fatti.
*Articolo apparso su “Il Messaggero” (Roma) dell’11 giugno 2020
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