di Alessandro Campi
Viviamo ormai nella società del lamento permanente, petulante e universale: uno dei lasciti peggiori della pandemia, anche se la tendenza al piagnisteo con richiesta di risarcimento urgente era già chiara da tempo.
Tutti chiedono, tutti pretendono, tutti vogliono, tutti recriminano. Tutti hanno diritti da esigere: per sé, qui e ora, senza preoccuparsi di ciò che vuole o desidera il prossimo e senza pensare che i diritti, a furia di sommarsi, possono finire per elidersi tra loro.
di Alessandro Campi

Viviamo ormai nella società del lamento permanente, petulante e universale: uno dei lasciti peggiori della pandemia, anche se la tendenza al piagnisteo con richiesta di risarcimento urgente era già chiara da tempo.

Tutti chiedono, tutti pretendono, tutti vogliono, tutti recriminano. Tutti hanno diritti da esigere: per sé, qui e ora, senza preoccuparsi di ciò che vuole o desidera il prossimo e senza pensare che i diritti, a furia di sommarsi, possono finire per elidersi tra loro. Il mio dolore e i miei problemi sono per definizione più grandi e insopportabili dei tuoi. E meritano quindi un riscontro immediato, una soddisfazione pronto cassa.

Accade in campo economico sotto l’incalzare della crisi. Ogni categoria ritiene, in questo momento, di dover accedere agli aiuti prima degli altri, di avere più motivi per lagnarsi rispetto al vicino. Prima noi industriali, dicono gli industriali. Prima noi commercianti, dicono i commercianti. Ma il problema è che la stessa cosa dicono i lavoratori dello spettacolo, gli operatori sanitari, gli agricoltori, i disoccupati, i precari, i pensionati con pensioni da fame, i professionisti che hanno perso i clienti, i ristoratori, ecc. Un po’ è un inevitabile gioco delle parti, un po’ è l’incapacità a pensare che siamo una totalità composta da molti segmenti, nessuno dei quali, per piccolo e influente che sia, per grande e prepotente che sia, può considerare le proprie pretese come oggettive, prioritarie e irrinunciabili.

Ma accade anche nella sfera sociale sotto l’incalzare della cultura pseudo-rivoluzionaria, dissacratoria e dissolutrice, che tanto piace in questo momento agli intellettuali benpensanti che presto ne rimarranno vittima come in tutte le pseudo-rivoluzioni che si rispettino. In questo caso la lamentazione viene da gruppi, fazioni e minoranze che ritengono ognuna (e tutte insieme) di aver subito o di star subendo torti e danni incalcolabili, vecchi e nuovi, comunque insopportabili, per i quali è venuto il momento che qualcuno paghi.

E pazienza se in nome della libertà propria si metta a repentaglio quella altrui e si faccia scempio della stori, ridotta ormai ad una partita tra buoni e cattivi, tra bene e male. O se per dare soddisfazione alla propria identità ferita o offesa si feriscano e si offendano, oltre che il buon senso e la ragionevolezza, le sensibilità, i sentimenti e l’amor proprio di chi al dunque ha solo la colpa statistica (che ormai è una colpa storica e politica da espiare nell’immediato sulla base di processi sommari) di non far parte di alcuna minoranza, ovvero di essere un oppressore proprio perché membro di una maggioranza all’interno della quale le differenze, individuali e di gruppo, dovrebbero poter convivere invece che diventare motivo di lotta e di polemica.

Perché è questo il problema: se tutti, individui e gruppi, si lamentano – spesso per spirito di risentimento più che per passione di giustizia –, se tutti chiedono e pretendono, se tutti contestano a avanzano rivendicazioni, siano compensazioni economiche, politiche o simboliche, quanto manca prima che una qualunque società, dinnanzi a quest’affollarsi di richieste e pretese, si disgreghi o si avviti nella spirale di interminabili conflitti?

Il pluralismo, cioè la molteplicità di interessi e punti di vista, di aspettative e valori, è una realtà tipica di tutte le società, specie quando sono complesse e articolate come le attuali. La democrazia è stata inventata proprio per governare e tutelare il pluralismo, considerato un fatto in sé benefico, laddove l’omogeneità e il conformismo sono il tratto fondante dei regimi oppressivi. Ma le troppe differenze rischiano di essere laceranti e distruttive se non c’è qualcosa (o qualcuno) che abbia la forza di unire e tenere insieme: ex pluribus unum. Ma chi riesce più ad assicurare, ai giorni nostri, solidarietà politica e coesione sociale nel rispetto, per quanto possibile pacifico, delle diversità?

Una volta si sarebbe detto che il sentimento religioso, o comunque il rispetto di una certa tradizione storica d’ispirazione religiosa, era sufficiente ad assicurare lo spirito d’aggregazione necessario alla vita di qualunque comunità, anche la più litigiosa o differenziata al suo interno. Ma questa condizione sembra venuta meno, soprattutto in quella parte di mondo che chiamiamo occidentale. La cristianità come modello o patrimonio culturale se non è finito come fonte condivisa d’ispirazione (che anche per i non credenti è stata storicamente tale), non può essere più evocato nella dimensione pubblica. Resta il cristianesimo come culto ufficiale di quella parte di società che sembra però destinata a diventare una minoranza e che psicologicamente già si considera tale.

Intorno a cosa o a chi ci si può dunque oggi riunire come collettività? La politica, che per definizione dovrebbe essere l’arte del ricondurre le diversità a sintesi, è screditata e impotente, sopraffatta da processi storici – la tecnologia colonizzatrice della sfera quotidiana, la finanza come propulsore della ricchezza in luogo dell’economia basata sulla produzione – che semplicemente non governa. Le leggi e le regole costituzionali sono certo un fattore unificante, ma il loro rispetto formale difficilmente può rendere compatta e solidale una comunità che abbia imboccato la strada della dissoluzione.

Quanto agli altri possibili fattori unificanti, i leader politici sono ormai al seguito delle masse che dovrebbero condurre, ispirare o motivare. I media sono alla mercé degli umori collettivi che si limitano ad amplificare anche al prezzo di sacrificare l’informazione al sensazionalismo. I partiti – un tempo definiti d’integrazione di massa – non esistono più: se prima erano “pigliatutti” in termini sociali ed elettorali oggi al massimo si limitano ad arraffare le risorse pubbliche che li tengono in vita e a contendersi votanti che cambiano idea ad ogni turno elettorale. Il mito della nazione è appannato e visto con sospetto. Lo Stato, come massima delle istituzioni, dà ormai l’impressione di vessare i cittadini invece che tutelarli. I social, divenuti il motore delle relazioni sociali nell’età contemporanea, sono dal canto loro uno straordinario strumento di divisione più che di civile confronto: polarizzano i sentimenti e alimentano i pregiudizi delle tante tribù che compongono le società odierne.

Interessi materiali inconciliabili, valori in lotta permanente, lamentazioni diffuse e incrociate, rivendicazioni di minoranze, richieste quotidiane di risarcimento, particolarismi sociali e affermazioni identitarie di singoli e gruppi, un passato storico nel quale collettivamente non ci si riconosce più. Ciò che drammaticamente manca è esattamente la compensazione o composizione tra ciò che divide, il bilanciamento o compromesso, la conciliazione che sola rende possibile la convivenza. Perché se tutti vogliono tutto, se tutto viene messo in discussione o contestato, non essendoci la possibilità materiale di dare a tutti ciò che ognuno chiede o di assecondare ogni pretesa, alla fine vincono o comunque prevalgono, in mancanza di mediazione o sintesi, quelli meglio organizzati, quelli più ricchi, quelli più scaltri e spregiudicati, quelli più arroganti e determinati, quelli che riescono a far coincidere il proprio tornaconto con l’interesse generale o che pensano che il loro modo di vedere il mondo (per definizione parziale) sia il modo con cui tutti debbono obbligatoriamente vedere il mondo. Dalle richieste in nome della giustizia e della libertà si rischia di scadere facilmente nella discriminazione e nell’intolleranza: esercitate paradossalmente non più dai molti sui pochi ma dai pochi sui molti.

Nella società del lamento vincono insomma quelli che del lamento quotidiano e generalizzato, a sostegno esclusivo della propria causa, riescono a fare una forma di propaganda capillare e martellante.  Rivendicazioni economiche delle categorie e richieste di riconoscimento pubblico da parte d’ogni possibile minoranza (etnica, sessuale, religiosa). Sembra aspettarci, tra sensi di colpa spesso indotti e paure collettivi sempre sul punto di esplodere, una conflittualità endemica e diffusa, molecolare e pervasiva, che per il futuro delle nostre società e dei nostri sistemi politici non promette nulla di buono.

*Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) er “Il Mattino” (Napoli) del 24 giugno 2020

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