di Alessandro Campi
Nell’epoca del rifiuto della storia (e della vandalizzazione dei suoi simboli fomentata da una nuova leva di contestatori radicali che ha deciso di infierire polemicamente sul passato da quando ha capito di non avere strumenti per cambiare il presente e il futuro o per combattere un potere fattosi tanto pervasivo quanto sfuggente e anonimo) colpisce la notizia che i Presidenti italiano e sloveno, Sergio Mattarella e Borut Pahor, si incontreranno oggi a Trieste, per ricordare – nel segno di una riconciliazione che per essere autentica deve sempre implicare una reciproca assunzione di responsabilità – alcune pagine della loro storia comune tra le più controverse e dolorose.
La restituzione alla comunità slovena della Casa della Cultura (assaltata e incendiata dai fascisti il 13 luglio di cent’anni fa) e l’omaggio comune a Basovizza (foiba-simbolo degli italiani scacciati dalle loro storiche terre d’insediamento e spesso brutalmente uccisi dopo il 1943 e luogo dove nel 1930 furono fucilati quattro oppositori sloveni alla politica di italianizzazione forzata perseguita dal regime mussoliniano) sono gesti finalizzati non tanto a costruire una memoria condivisa, come spesso si dice, operazione impossibile dal momento che le memorie sono sempre soggettive, parziali e per definizione non compensabili, quanto a impedire che il settarismo ideologico si sommi alla tentazione dell’oblio.
Quello che oggi si rischia, infatti, è il diffondersi di una perversa miscela fatta di fanatismo e ignoranza: da un lato, la strumentalizzazione del passato per ragioni politiche contingenti; dall’altro, la liquidazione della storia come dimensione della conoscenza dalla quale si ritiene di non poter più ricavare alcun insegnamento o lezione.
Opposta sembra invece la scelta operata congiuntamente da Italia e Slovenia: ricordare il passato, anche se si tratta di ferite dolorose, non con l’idea di rivangarlo sul filo degli opposti risentimenti e delle continue recriminazioni, ma per lasciarselo definitivamente alle spalle come segno di una raggiunta maturità. Operazione che impone, al contrario della mentalità iconoclasta e dissacratrice che stiamo vedendo all’opera in queste settimane, un ripensamento critico di ciò che si è stati e di ciò che si è fatto. Ne possono derivare anche forme di pubblico e talvolta necessario pentimento (laddove l’ammissione degli errori commessi non può equivalere ad un senso di colpa autodistruttivo o alla negazione di sé), ma può derivarne soprattutto una migliore, cioè più completa e meno settaria, conoscenza del passato proprio e altrui. Nella consapevolezza che i torti e le ragioni della politica e della storia difficilmente possono essere giudicati secondo criteri astrattamente morali, tantomeno sottoposti al tribunale postumo della ragione: i cui giudizi tanto più sono intransigenti tanto più risultano inevitabilmente iniqui e sommari.
Si tratta di un approccio costruttivo al passato – né afflittivo su piano dei valori, né liquidatorio sul piano dei fatti – che l’Europa, proprio perché a lungo dilaniata da divisioni e contrasti interni, nonché dal peso di troppe memorie in conflitto, sembra indicare come strada maestra, sul piano civile e intellettuale, al posto del furore distruttivo che in questo momento anima ad esempio un pezzo della società americana e molte frange radicali in diversi Paesi occidentali (Italia inclusa). Le democrazie, proprio perché riconoscono il pluralismo dei valori e degli interessi, fanno i conti con la storia e le sue contraddizioni spesso tragiche. I totalitarismi, nella misura in cui negano ogni differenza di idee e di aspirazioni, hanno invece la pretesa di riscriverla secondo le proprie convenienze ideologiche e immaginando che essa possa avere un senso unitario e obbligato. Le prime, riconoscendo i confitti, tendono a superarli attraverso lo strumento della riconciliazione come atto pubblico. I secondi, con la pretesa di abolirli nel presente e nella memoria, inseguono l’uniformità imposta sotto forma di verità ufficiale.
Naturalmente, iniziative di alto significato simbolico e culturale come quella organizzata a Trieste, non sono esenti da rischi. Quando si esce dal perimetro della storiografia accademica per entrare in quello della storia celebrativa bisogna infatti evitare che la retorica e l’ufficialità dei discorsi, per quando animati da una sincera vocazione pedagogico-civile, si mangino la realtà vivente della politica. Ciò significa, per fare un solo esempio, che denunciare le tossine del nazionalismo novecentesco e i rischi di un suo ritorno di fiamma, sotto la formula genericamente equivoca del “sovranismo”, non implica che la nazione e il senso di appartenenza che la sostiene vadano considerati – come alcuni tendono a pensare – un pericoloso anacronismo. La nazione è ancora oggi un concetto politico vitale e uno spazio simbolico di costruzione di un sé sociale senza il quale si rischia lo sradicamento su base planetaria: non l’umanità unità, ma l’umanità frammentata e in perenne conflitto.
Lo stesso dicasi per l’idea che i confini tra Paesi, anche quando appaiono o vengono dichiarati naturali, siano al dunque una mera convenzione culturale, un artificio politico-legale che nella prospettiva di un mondo sempre più unificato e integrato dovremo un giorno superare. Non foss’altro per evitare che si ripetano incomprensioni mortali e scoppio d’odio come quelli che hanno tragicamente segnato, nel corso del Novecento, il confine orientale dell’Italia. Ma anche in questo caso bisognerebbe ricordare come le barriere e i limiti che definiscono uno spazio politico, che è sempre anche uno spazio storico-culturale, sono finzioni vitali e necessarie per qualunque comunità organizzata: ci si divide anche per meglio conoscersi, come accade appunto nelle zone di confine, che per definizione sono zone di scambi, mescolanze e incroci ma a partire da una qualche identità dichiarata o rivendicata. Laddove l’identità, presa sul serio, implica il riconoscimento e l’accettazione di chi ne dichiara o possiede una diversa. Il nostro problema odierno, se davvero pensiamo di aver appreso qualcosa dalla storia, è far convivere le diversità (a partire da quelle collettive) non annullarle: negli Stati e tra Stati.
Tutto ciò, come si comprende facilmente, si riflette sul futuro dell’Unione europea – che è il tema politico sullo sfondo dell’incontro tra Mattarella e Pahor e, simbolicamente, tra i rispettivi popoli. L’idea di alcuni è che la costruzione di un’identità europea radicata a livello popolare possa realizzarsi solo attraverso il superamento delle culture o appartenenze nazionali che nel passato del continente non sono state altro che cause di divisioni e guerre. Laddove è vero esattamente il contrario: l’Europa può rappresentare uno spazio comune e condiviso – sul piano culturale, politico e simbolico – solo se le nazioni storiche che ne sono il fondamento materiale e simbolico potranno mantenere la loro autonomia, indipendenza e riconoscibilità. L’unità nella differenza, la solidarietà nel rispetto della storia propria e altrui, la fratellanza sapendo che tra fratelli, in certe circostanze, si possono anche consumare inimicizie mortali, così come si possono realizzare grandi slanci passionali e disinteressati: è il messaggio che da Trieste Italia e Slovenia hanno lanciato all’intera Europa.
- Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 13 giugno 2020
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