di Alessandro Campi
Tra i big della politica italiana – di sinistra, di centro, di destra – non ce n’è uno, a quanto pare, che aspiri a fare il sindaco della capitale d’Italia (dove si voterà nella tarda primavera del 2021). Tutti quelli sinora interpellati e sollecitati si sono dichiarati indisponibili con le più diverse scuse. Da un lato sembrano temere una trappola elettorale che in caso di sconfitta potrebbe rovinare per sempre la loro reputazione. Dall’altro pensano che, anche in caso di vittoria, finirebbero per assumere un incarico al tempo stesso amministrativamente troppo gravoso e politicamente poco redditizio.
È davvero una stranezza che una città come Roma non venga considerata, da un politico minimamente capace e ambizioso, una sorta di oggetto del desiderio: il coronamento di una carriera, ovvero il punto di partenza per una carriera ancora più prestigiosa. Si guida la capitale per poi arrivare al vertice dello Stato, come spesso è accaduto nell’esperienza di altri Paesi: Jacques Chirac è stato sindaco di Parigi, Boris Johnson lo è stato di Londra, ma si potrebbero fare molti altri esempi.
Parliamo, nel caso di Roma, della città più famosa del mondo, della capitale della cristianità, del luogo di irradiazione del più grande impero universale, di una realtà nella quale la storia sconfina continuamente nel mito, di un posto che più internazionale non si potrebbe immaginare (basti pensare che qui tutte le rappresentanze diplomatiche vanno moltiplicate per due e talvolta per tre), di una meta turistica tra le più visitate al mondo, di un concentrato senza pari di ricchezze monumentali e tesori artistici d’ogni epoca ecc. Tutte cose ben conosciute e mille volte ripetute, ma poiché si tratta di verità indiscutibili davvero non si capisce come la poltrona del Campidoglio possa essere considerata, invece che una tribuna affacciata sul mondo alla quale ambire, una rogna da evitare. Ovvero un’incombenza da lasciare a qualche politico di seconda fila o all’outsider di turno.
Come si spiega questa stranezza? Un po’ dipende dalla poca voglia di rischiare e dalla mancanza di combattività dell’attuale classe politica. Quella di un tempo era abituata a dare battaglia, soprattutto quando bisognava raggiungere posizioni di particolare potere e prestigio. Le carriere politiche odierne si costruiscono invece attraverso lo strumento della cooptazione. Essere scelti è certo meno faticoso che farsi scegliere. Nel primo caso, bisogna sudare e sporcarsi le mani, costruendosi un consenso popolare a suon di voti. Nel secondo non servono meriti o competenze particolari: basta possedere qualche entratura, trovarsi al posto giusto nel momento giusto e avere un po’ di fortuna. Lottare per la conquista di Roma è evidentemente ritenuta un’attività troppo impegnativa da chi fa politica ad un certo livello: perché andare a caccia di voti nelle periferie per sedere (forse) al Campidoglio quando si può diventare sottosegretari o ministri per chiamata dall’alto e per grazia ricevuta?
Ma siamo ancora al livello delle spiegazioni generiche o effimere. Più serio è chiedersi quanto la capitale d’Italia, al di là del dato formale, venga davvero considerata tale a livello di immaginario pubblico e di autocoscienza politica collettiva. L’impressione infatti è che nel corso degli anni si sia creata una vulgata negativa, peraltro largamente ingiustificata, secondo la quale, ad esempio, Roma è sì una città con un grande passato, ma priva del dinamismo e della capacità d’innovazione richieste ad una vera metropoli. Sarebbe più un museo a cielo aperto che, come dovrebbe essere naturale per una capitale, il centro trainante – sul piano culturale come su quello economico – della vita nazionale.
Non parliamo poi dello stereotipo liquidatorio – che decenni di propaganda anti-politica hanno finito per trasformare in una banalità continuamente ripetuta – secondo il quale a Roma, proprio perché essa ospita tutte le più importanti istituzioni nazionali, si concentrano tutti i vizi caratteristici del costume italiano: l’intreccio opaco tra politica e affari, l’assistenzialismo statalista, la mentalità parassitaria tipica del ministerialismo, il particolarismo nemico dell’interesse pubblico, l’indolenza dei cittadini, l’arte di arrangiarsi ecc. Chi in effetti può ambire a guidare Roma se essa è solo corruzione e inefficienza? (Ma è bastata la cronaca drammatica di questi mesi a ricordarci come queste ultime siano equamente distribuite sul territorio nazionale).
Beninteso, su questo giudizio critico e negativo verso Roma hanno pesantemente influito gli ultimi vent’anni di cattivo e spesso assai sciatto governo della città. Le ultime sindacature non hanno certo brillato per intraprendenza e visione strategica. Nella migliore delle ipotesi, si solo limitate a gestire (peraltro non sempre con buoni risultati) l’ordinaria amministrazione. Che nel caso di Roma deve tenere conto di alcune sue caratteristiche in effetti uniche: basti pensare alla sua straordinaria estensione territoriale, all’esistenza al suo interno di autentiche città nella città, alla complessità della sua stratificazione socio-demografica, alla convivenza delicata di antico e moderno entro i medesimi spazi urbani, ecc.
In realtà, proprio questo recente passato nel segno della trascuratezza gestionale e amministrativa dovrebbe rappresentare una sfida eccitante per qualunque politico di rango, tenuto conto che ai problemi di Roma, che per quanto grandi e trascurati sono al dunque quelli tipici di ogni grande concentrazione urbana, si aggiunge lo straordinario surplus politico-simbolico che la città porta con sé.
L’idea, talvolta ventilata nella discussione pubblica sempre a fini polemici, che Roma sia strutturalmente ingovernabile, che il caos politico e l’anarchia sociale facciano parte della sua storia secolare, considerata anche l’antropologia levantina dei suoi abitanti, è solo un altro banale stereotipo. Il problema, contingente e urgente, di Roma è semmai un altro: trovare una guida politico-amministrativa ferma, autorevole e determinata, che sappia farla rinascere (come è già capitato con altre metropoli del mondo un tempo in crisi e oggi fiorenti) grazie a politiche urbanistiche innovative e alla messa a regime della sua complessa (e adoggi largamente inefficiente) macchina burocratico-gestionale. Per fare questo ci vogliono ovviamente investimenti massicci, occorre un progetto di sviluppo rivolto al futuro, serve appunto un Primo cittadino capace, ma soprattutto si deve sempre avere una chiara percezione dell’eccezionalismo di Roma.
La storia che essa ha alle spalle, infatti, è talmente grande e impegnativa, talmente grandi sono le implicazioni politico-simboliche legate al suo nome, da travalicare ampiamente i confini nazionali. Roma è in senso proprio una “città universale”: il suo mito, dall’antichità all’età contemporanea, è stato talmente potente e pervasivo da aver influenzato la storia e la cultura di molti Paesi e molti popoli. Questo spiega perché nel 1871, dopo che era diventata capitale d’Italia (a proposito, nel 2021 l’anniversario dei 150 anni da questa proclamazione verrà celebrato in modo degno?), lo storico Theodor Mommsen si rivolse all’allora ministro delle Finanze Quintino Sella chiedendogli quali obiettivi per Roma avessero i capi del nuovo Stato nazionale: “Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti”.
Da Roma si guarda il mondo e il mondo intero osserva Roma. Nella scelta dei prossimo candidati per il Campidoglio si dovrebbe tenere conto di questo aspetto, non avendolo colpevolmente fatto negli ultimi appuntamenti amministrativi. Alla guida di Roma servirebbe un politico di rango, consapevole (e orgoglioso) del ruolo cui sarebbe eventualmente chiamato. Ma se la politica italiana odierna proprio non riesce ad assumersi una simile responsabilità, che si pensi allora ad un manager di vaglia, ad una personalità con esperienza e competenza, con una visione lungimirante e autenticamente internazionale, dispoto ad accettare una sfida tanto grande e difficile quanto esaltante. Si faccia dunque il possibile per impedire l’ennesima corsa politica al ribasso che rischia di ripetersi per le prossime elezioni (purtroppo ci sono già segnali in questa direzione) e che una città come Roma, a questo punto della sua storia e per quanto ne abbia viste di tutti i colori, semplicemente non merita.
*Editoriale apparso su “Il Messaggero” del 4 agosto 2020
Lascia un commento