di Alessandro Campi
Per chi abbia letto o anche soltanto orecchiato l’opera di Roberto Michels – un tedesco-renano innamorato dell’Italia, autore nel lontano 1911 di un classico della scienza politica intitolato Sociologia del partito politico – non suonerà strana l’idea che i partiti – tutti, senza eccezione, anche quelli che si professano democratici, rivoluzionari o popolari – abbiano un tratto intrinsecamente verticistico e oligarchico. Ma in Italia, diciamo così, forse stiamo esagerando.
Guardiamo infatti a quel che sta accadendo nel M5S e nel Pd, entrambi alle prese con la scelta di un nuovo leader: nel primo caso, perché la guida collegiale si è scoperto che non funziona; nel secondo perché si è appena dimesso, vittima del fuoco amico e dei suoi stessi errori politici, l’ennesimo segretario.
Il M5s è nato con questo marchio di fabbrica: potere ai cittadini comuni, uno vale uno, niente deleghe in bianco, il parlamentare come portavoce dell’elettore, rotazione delle cariche come antidoto alla corruzione e alla routine del governo, collegialità nelle scelte, consultazione diretta degli iscritti per ogni decisione importante. Insomma, la democrazia quella vera: diretta, partecipata, trasparente, istantanea (grazie alla Rete).
Ma al momento di darsi finalmente un vero capo politico (oltre quello spirituale che sempre resterà Grillo) ecco che il metodo adottato risulta quello antico – roba da monarchia più che da democrazia – della cooptazione o designazione dall’alto, una sorta di unzione regale senza olio sacro e senza corona. Giuseppe Conte ne diventerà il leader così come è diventato due volte Presidente del Consiglio: per nomina inappellabile dell’Uno che decide per Tutti e perché, diciamola tutta, è nato veramente con la camicia.
Il nuovo statuto del partito lo stanno scrivendo lui e Grillo, ai militanti il compito di approvarlo possibilmente senza emendamenti. Lui insieme a Grillo deciderà il nuovo simbolo e soprattutto la nuova linea politica: gli elettori, si spera, capiranno e apprezzeranno, gli iscritti apprezzeranno anche senza capire. Dunque niente congressi, niente candidature alternative, nessun dibattito (al massimo mugugni o qualche insulto personale), nessuna possibilità di strategie alternative a quelle che verranno decise e comunicate. Insomma, niente politica, lasciamo perdere la democraticità di una simile procedura.
Diverso il caso del Pd, che viene da una storia di lunghi tormenti interni e che qualcosa ancora mantiene del modo di concepire la politica dei vecchi partiti (dove come prima regola per comandare bisognava prima battagliare). Ma il modo come si sta risolvendo la successione a Zingaretti – per chiamata diretta dall’estero di un suo ex-iscritto che sembrava destinato ad una brillante carriera accademica – la dice lunga sulle modalità eccentriche attraverso le quali si può oggi arrivare alla guida di un partito. In questo caso, grazie all’accordo dei capi-corrente del Pd che, senza consultare nessuno, hanno deciso in fretta e furia che Enrico Letta è in questo momento l’unico in grado – per carattere (mite), stile (felpato) e formazione (internazionale) – di ricucire lacerazioni e dissensi interni e di salvare la baracca dalla demolizione.
Ma il suo programma? Vedremo. Una parvenza di competizione? Non è il caso. L’opinione di iscritti e militanti? Non c’è tempo. Una donna finalmente leader? Sarebbe bello, ma… Facce nuove e una salutare ventata? Mica siamo matti, poi noi (piccoli oligarchi e vecchi caporioni) che facciamo…
Michels elaborò la sua diagnosi pessimistica quando erano da poco nati i grandi partiti di massa del Novecento – quelli con centinaia di dirigenti e funzionari, decine di migliaia di attivisti, milioni tra iscritti ed elettori, un radicamento capillare nella società, sedi sparse ovunque e una fitta rete di associazioni e strutture parallele: spesso uno stato nello stato. Strutture così complesse si capisce perché, per funzionare, avessero bisogno di essere ferreamente piramidali: un leader, pochi capi, molto seguaci.
Quel mondo è scomparso, inghiottito da quella cosa strana che chiamiamo post-modernità. I partiti odierni – in crisi crescente di legittimità e funzionalità, oggi ci sono, domani chissà – sono al confronto ectoplasmi organizzativi o loro riproduzioni in formato bonsai. Anche quanto godono di un seguito di massa, peraltro sempre più ballerino e instabile, sembrano vivere in una condizione puramente virtuale, quando non sono marchi commerciali e comitati elettorali, centrali affaristiche o proprietà private. Non hanno più ideologie da difendere, al massimo rendite di posizione. Ma due cose hanno mantenuto rispetto al passato: il tratto famelico (la tendenza cioè ad occupare lo spazio pubblico-istituzionale e le relative risorse) e, appunto, la propensione ad accentrare il potere in poche mani, a gonfiarsi la bocca di appelli alla democrazia senza tuttavia praticarla al loro interno.
In un’epoca di sfiducia generalizzata verso la politica e i suoi attori – che la crisi pandemica sta drammaticamente accentuando – la ricetta suggerita dal buon senso per rivitalizzare una democrazia in affanno come l’italiana dovrebbe essere quella di un maggior coinvolgimento dal basso, in primis proprio nella vita dei partiti e nelle loro decisioni fondamentali (come è quella su chi li debba guidare e comandare). Partecipare per contare, la partecipazione come assunzione di responsabilità da parte dei cittadini, come strumento per ricreare un rinnovato clima di fiducia e per favorire quel ricambio virtuoso nelle cariche e nelle poltrone senza il quale qualunque organizzazione alla fine deperisce e muore. Il che è quel che in effetti tutti i partiti promettono e annunciano, salvo continuare con tenacia a fare il contrario.
Il risultato di questa deriva o incapacità lo abbiamo sotto gli occhi. Per dare un governo all’Italia – non è la prima volta, potrebbe non essere l’ultima – c’è voluto un signore fuori dai giochi partitici o correntizi, non un leader di partito, ma un leader senza partito. Detto questo, non senza amarezza, auguri sinceri a Conte e Letta.
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