Giacomo Delledonne, Giuseppe Martinico, Matteo Monti, Fabio Pacini, Populismo e Costituzione. Una prospettiva giuridica, Mondadori Education, Milano 2022, pp. 176.
di Maria Giorgia Caraceni
Populismo e Costituzione. Una prospettiva giuridica, volume collettaneo pubblicato da Mondadori per la collana Lessico Democratico, può essere definito un ʿesempio virtuoso di studio transdisciplinareʾ, in quanto, come facilmente intuibile dal titolo, si configura come un’indagine concernente un tema prettamente politologico, condotta, però, secondo gli strumenti interpretativi propri della scienza giuridica. A parere di Yves Mény, eminente studioso del tema in oggetto ed autore dell’introduzione che impreziosisce il volume, sono proprio i giuristi a poter «stabilire una diagnosi precisa della gravità del male e della capacità di ciascun ordinamento giuridico di rigettare oppure assorbire l’idra populista al proprio interno» [p. VII]; pertanto, in accordo col tenore di tale affermazione, riteniamo che la presente ricerca possa profilarsi come un (ulteriore) pregevole strumento di analisi per tutti quegli studiosi che abitualmente si occupano di populismo, vale a dire politologi, sociologi e filosofi della politica.
Il caso su cui l’indagine svolta si focalizza prevalentemente è quello italiano, considerato indicativo e altresì rilevante per diverse ragioni. Anzitutto, se si tiene presente la lunga tradizione di antiparlamentarismo che ha caratterizzato la storia unitaria del Paese, ci si rende immediatamente conto di quanto le radici storiche del populismo italiano siano lontane nel tempo: nel primo capitolo vengono, in tal senso, individuati alcuni snodi oltremodo significativi – dalla fondazione del Fronte dell’Uomo Qualunque nell’immediato dopoguerra, alle vicende di Tangentopoli, dall’ascesa di Silvio Berlusconi, fino ai successi elettorali del Movimento 5 Stelle e dalla Lega. È inoltre fuor di dubbio che quella italiana sia annoverabile tra le cosiddette democrazie consolidate, pertanto, la formazione di una coalizione di governo a guida esclusivamente populista nel corso della XVIII legislatura (oggetto di approfondita trattazione nel terzo saggio), ha rappresentato una vicenda, per così dire, inedita e perciò meritevole di essere attenzionata. Va però evidenziato che, al fine di comprendere a fondo le specificità del caso italiano, questo viene trattato secondo una prospettiva comparativa, pertanto nel testo vi sono confronti piuttosto frequenti sia con altri Paesi europei che con gli Stati Uniti.
Gli autori dei quattro saggi che compongono il libro, consapevoli delle innumerevoli difficoltà teoriche legate ad un oggetto tanto scivoloso da afferrare – a partire dalla vexata quaestio della definizione –, orientano piuttosto la loro analisi alla comparazione tra principi costituzionali e rivendicazioni – ed (eventuale) azione di governo – dei leader (e dei partiti) populisti, al fine di valutarne la (in)compatibilità.
Come correttamente messo in luce da Giuseppe Martinico, autore del primo contributo, la rappresentazione secondo cui populismo e costituzionalismo sarebbero fenomeni antitetici, non coglie l’ampiezza della questione. Infatti, «A ben vedere, i populismi adoperano continuamente categorie proprie del costituzionalismo: popolo, maggioranza, sovranità, democrazia, solo per citare alcuni esempi» [p. 1]. Dunque, la complessità della sfida populista, a giudizio dell’autore, risiede proprio nel fatto per cui, «almeno in prima battuta, i populismi tendono a mostrarsi compatibili con la struttura delle democrazie costituzionali», salvo poi che in realtà tentano «di alterarne il nucleo essenziale» [Ibidem]. Pertanto, tra populismo e costituzionalismo è possibile individuare una duplice relazione, mimetica e parassitaria allo stesso tempo. Col termine «mimetismo si intende la capacità di certi movimenti di nascondersi dietro le parole del costituzionalismo, manipolandolo strumentalmente» [p. 18]. La strategia dei populisti consiste, dunque, proprio in questo: «non porsi in completa antitesi con il testo costituzionale, cercando anzi di apparire conformi a quest’ultimo e, tentando, quindi, di legittimarsi» [Ibidem]; ciò significa che essi si adoperano al fine di appropriarsi di alcuni concetti (e valori) della Costituzione, sulla base di una presunta compatibilità tra questi ultimi e la propria visione, ma ne propongono, in realtà, un’interpretazione alternativa. A tal proposito, appare particolarmente interessante l’operazione condotta dall’autore nel corso del capitolo, che, ad avviso di chi scrive, potrebbe essere definita (prendendo in prestito una categoria della filosofia derridiana) ʿdi decostruzioneʾ: ad esempio, è nello scritto evidenziato come, nella continua invocazione della sovranità popolare sulla base all’art. 1 della Costituzione italiana, i populisti “dimentichino” di fare riferimento al restante testo della disposizione, che si sofferma, invece, sui limiti entro i quali questa deve essere esercitata.
«Questa manipolazione delle categorie del costituzionalismo serve per attuare la […] strategia [del] […] parassitismo» [p. 20], concetto (mutuato da Jacques Derrida e utilizzato per la prima volta nell’ambito degli studi sul populismo da Nadia Urbinati) «con cui si intende la capacità di alterare – da dentro, sfruttando, quindi, le possibilità offerte dalle procedure democratiche – le strutture valoriali delle democrazie costituzionali, trattando il principio democratico non come un astro in una costellazione di valori […] , ma come un super valore che prevale sugli altri sempre e comunque e che – soprattutto – viene identificato con la mera regola della maggioranza» [p. 20]. Tale radicale approccio maggioritario, non considera, dunque, che la Carta Costituzionale, in accordo col principio di protezione delle minoranze, si struttura piuttosto attorno ad una visione contro maggioritaria, arrivando finanche a prevedere l’esistenza di spazi di non decidibilità, vale a dire, questioni su cui non si possono prendere decisioni nemmeno all’unanimità (i.e., in molte costituzioni, le parti relative ai diritti fondamentali non sono modificabili – neanche con maggioranze speciali –, affinché questi non possano essere sottratti alle minoranze).
Nel secondo saggio, scritto da Fabio Pacini, sono discusse le ragioni alla base dell’avversione populista per il parlamentarismo. Se quest’ultimo prevede una serie di passaggi intermedi a cui ogni decisione deve essere sottoposta, il populismo, per sua natura ostile «a tutto ciò che sembra rendere le decisioni pubbliche meno ʿfaciliʾ ed intuitive» [p. 41], mira invece all’efficienza, e, di conseguenza, all’istantaneità. Viene però rilevato dall’autore che, dal momento in cui una forza populista riesce ad entrare nelle istituzioni, il suo atteggiamento varia a seconda che si trovi all’opposizione o nella coalizione di governo. «Il movimento di opposizione populista tende a fare ampiamente uso dell’ostruzionismo» [p. 43]; giudicare il comportamento dei populismi di governo, per converso, risulta maggiormente problematico.
Con riferimento al caso emblematico del governo Conte I, l’analisi svolta da Pacini mira a dimostrare che, in diverse occasioni, la maggioranza giallo-verde ha agito esacerbando malcostumi in realtà diffusi in tutti i governi a partire dagli anni Novanta. Il primo governo Conte, ad esempio, ha fatto ampio ricorso allo strumento del decreto-legge «deliberandone 26 in poco più di un anno», e tale dato è pienamente «in linea con gli Esecutivi precedenti» [p. 59]. Tuttavia, in questo caso, ad attirare l’attenzione è il valore simbolico più che il dato numerico; basti pensare ai decreti che hanno introdotto la c.d. quota 100 e il reddito di cittadinanza, vale a dire le promesse elettorali principali dei due partiti di governo: è evidente che in entrambi i casi non sussistesse «il requisito costituzionale della straordinaria necessità e urgenza, se non quella di mandare segnali all’elettorato» [Ibidem].
Cionondimeno, dice Pacini, il governo Conte I «ha portato all’aggravarsi del fenomeno della cosiddetta approvazione salvo intese, una sorta di ossimoro che indica un’approvazione – ad esempio – di decreti-legge e disegni di legge da parte del Consiglio dei ministri che formalmente risulta definitiva ma in realtà lascia il testo aperto a ulteriori mediazioni politiche» [p. 60]. Inoltre, «Il primo governo Conte ha […] largamente utilizzato un’altra tecnica destinata a forzare la mano del Parlamento, quella del c.d. maxi emendamento, [che] […] consiste in un emendamento del Governo – di solito mentre l’esame di un disegno di legge è già in fase avanzata in Parlamento – che sostituisce completamente o quasi il disegno di legge in questione, anche integrandolo con disposizioni che non hanno nulla a che fare con il disegno di legge originario o, comunque, stravolgendolo. Questi emendamenti, peraltro, possono essere ʿcopertiʾ dalla questione della fiducia per garantire che le loro possibilità di essere approvati siano ancora più alte» [pp. 62-63]. Tale discutibile pratica, a cui si è fatto ricorso ad esempio nel 2019 per l’approvazione della legge di bilancio, sposta di fatto la negoziazione di parti importanti di un testo di legge al di fuori del Parlamento. Segnala, però, l’autore che simili forzature procedurali sono state adottate anche nel 2021 per l’approvazione della legge di bilancio da parte del governo Draghi.
Si può dunque sostenere che il primo governo della XVIII legislatura abbia avuto un impatto ambivalente sulla “qualità” della democrazia italiana, infatti «alcune innovazioni deteriori, probabilmente dovute anche alla formazione ʿpopulistaʾ del primo governo Conte, hanno segnato dei precedenti poi riadottati anche da governi d’impostazione diversa, […]; al contempo, emerge che numerose forzature utilizzate dal primo governo Conte risalgono in realtà a epoche precedenti» [p. 69].
Per un’analisi ancor più dettagliata dell’azione del governo Conte I, occorre guardare al terzo capitolo del volume, firmato da Giacomo Delledonne. Osserva l’autore che, generalmente, il progetto costituzionale populista mira ad un rafforzamento dell’esecutivo, «percepito come il principale o unico rappresentante di una monolitica volontà popolare, […] a svantaggio dei contropoteri, come il giudiziario e le autorità amministrative indipendenti» [p. 75]. A fondamento di questa contro narrazione c’è, evidentemente, l’idea che il capo del governo possa stabilire un contatto diretto con l’elettorato (dicasi ʿpopoloʾ) e operare, così, in maniera efficace, superando le procedure (ritenute) farraginose alla base del parlamentarismo.
Invece, parlando nello specifico della genesi del primo governo Conte, guidato da Movimento 5 Stelle e Lega, Delledonne constata che, se da una parte la pratica dei governi di coalizione era, ed è, ampiamente diffusa nelle liberaldemocrazie mature, dall’altra, il c.d. contratto di governo alla base dell’esecutivo giallo-verde presenta dei tratti di specificità. Anzitutto, fa notare l’autore, va rilevato il massiccio «ricorso a un linguaggio caratteristico del diritto privato» [p. 81]: evidentemente, parlare di contratto anziché di accordo non è una scelta neutra, tanto più che le parti che lo hanno sottoscritto sono due individui, Di Maio e Salvini. Ciò ha rappresentato, dunque, un’operazione di privatizzazione delle dinamiche politiche, che ben si accorda con la polemica populista contro la rappresentanza. In aggiunta, nella consultazione degli elettori dei due partiti avvenuta dopo la sottoscrizione del contratto (tramite piattaforma Rousseau, nel caso del Movimento 5 Stelle, e gazebo nelle piazze, per quanto riguarda la Lega) – ma prima di quella dei gruppi parlamentari –, è rinvenibile un connotato tipicamente plebiscitario. Infine, un ulteriore elemento degno di commento pertiene la negoziazione dei contenuti del contratto, poiché in essa il Presidente del Consiglio (il cui nome non era ancora stato deciso), concepito come mero esecutore di un programma basato sulle intese tra le forze di maggioranza, non fu coinvolto.
Particolare attenzione è poi dedicata, nell’economia del capitolo, al cosiddetto caso Savona, vale a dire la mancata accettazione della nomina del Ministro dell’economia da parte del Presidente della Repubblica Mattarella: nonostante l’art. 92 della Costituzione attribuisca al Capo dello Stato tale potere, il leader del Movimento 5 Stelle Di Maio arrivò a domandarne la messa in stato d’accusa ai sensi, invece, dell’art. 90. Non era la prima volta che il Presidente della Repubblica non accordava la direzione di un ministero, ma gli allora Presidenti del Consiglio (i.e. Berlusconi e Renzi), avevano semplicemente provveduto a proporre altri nomi.
Il capitolo si chiude, poi, con una sezione in cui Delledonne si interroga sull’effettivo grado di discontinuità tra questo governo, definito del cambiamento, e il passato. L’opinione dell’autore è che l’azione di tale esecutivo possa, per certi versi, essere inscritta nel solco di quelli precedenti: per esempio, l’appena citata controversia legata al Ministero dell’economia, si concluse poi con il conferimento dell’incarico a un tecnico, Giovanni Tria, per giunta rappresentante di una linea economica moderata ed europeista, dato che «mette in evidenza lo scarto esistente fra intenzioni e realtà» [p. 91] e, dunque, il carattere intrinsecamente contraddittorio della breve esperienza del governo del cambiamento. Anche sul versante della produzione normativa non sono riscontrabili innovazioni alquanto significative: e.g., «il ricorso massiccio alla decretazione d’urgenza – divenuto […] il principale strumento di realizzazione dell’indirizzo politico dell’esecutivo – non differenzia certo il I governo Conte dai predecessori né dai suoi successori» [p. 95]. Allo stesso modo, «l’evanescenza della dimensione collegiale del governo del cambiamento, di cui sono spia la sporadicità delle convocazioni del Consiglio dei ministri e la breve durata delle sue riunioni», non rappresenta «un fatto nuovo, dal momento che il cattivo funzionamento del Consiglio dei ministri era già stato osservato criticamente nei primi decenni della Repubblica» [p. 93].
Tuttavia, è possibile rintracciare anche momenti di rottura, come chiaramente desumibile da quanto è stato detto a proposito delle vicende relative alla mancata nomina di Paolo Savona al Ministero dell’economia e alla stipula del contratto di governo – col quale è stato altresì inflitto un colpo ragguardevole al principio monocratico su cui si regge la Presidenza del Consiglio. Le anomalie, dunque, non sono mancate, ma nel complesso queste non hanno inciso sulla fisionomia dell’ordinamento costituzionale, pertanto si può ragionevolmente affermare che il populismo di governo sia stato contenuto: ciò è stato possibile grazie «a un’attenta delimitazione delle attribuzioni e delle possibilità di ciascun organo costituzionale» e ad «alcune importanti reazioni, in primis [come si è visto] quella del Capo dello Stato» [p. 99].
L’ultimo capitolo del libro è dedicato a quel fenomeno che l’autore, Matteo Monti, definisce «populismo digitale» [pp. 101 e sgg.] – argomento ormai imprescindibile all’interno di un’analisi scientifica su questi temi, in quanto l’utilizzo di Internet per la diffusione della propaganda populista è un dato irrefutabile e altresì strutturale. I social media permettono ai leader politici di stabilire un rapporto diretto e senza mediazioni con la loro base elettorale, e consentono inoltre la diffusione (spesso intenzionale) di notizie false che, grazie al meccanismo della condivisione, in breve tempo diventano virali alimentando, così, la disinformazione e, quindi, il brodo di coltura atto al radicamento del populismo.
Il populismo digitale pone una sfida ai gatekeepers dell’informazione, ovvero, tutti quei soggetti (giornalisti ed esperti) che innervano le democrazie costituzionali occidentali facendo da filtro tra politica e opinione pubblica. Mentre questi ultimi – per poter diffondere informazione – devono attenersi ad una serie di vincoli stringenti, nel caso delle piattaforme digitali non esiste un’adeguata regolamentazione e tale vuoto legislativo è «alla base di molte delle distorsioni del discorso pubblico negli odierni ordinamenti democratici» p. [114]. Per giunta, meccanismi tecnologici (e, in seconda battuta, sociologici) come quelli delle filter bubbles e delle echo chambers, contribuiscono a creare disordine informativo rafforzando convinzioni distorte su temi specifici e generando un ambiente mediale perfetto per la propaganda populista – «si pensi alla targettizzazione fraudolenta degli elettori avvenuta durante le elezioni presidenziali statunitensi con il celeberrimo caso Cambridge Analytica […] [o alla diffusione di propaganda in favore] dell’Ukip di Nigel durante il referendum sulla Brexit» [p. 120].
La «piattaformizzazione della sfera pubblica» rappresenta una sfida di inedita pervasività per le democrazie consolidate, tanto da indurre gli analisti (tra cui lo stesso Monti), ad attribuire alle piattaforme digitali una vera e propria funzione «para costituzionale» [p. 109], in quanto queste hanno ormai pienamente assunto un ruolo regolatorio circa il c.d. free speech. Da ciò si evince l’inconsistenza della (apparente) disintermediazione offerta dagli strumenti digitali, in quanto i soggetti possessori di tali mezzi di comunicazione, in virtù del c.d. fact-checking, sono liberi di prendere decisioni in merito ai contenuti da oscurare, avendo persino la facoltà di bloccare del tutto il profilo di un utente – si pensi all’esclusione di Donald Trump dai social dopo l’attacco a Capitol Hill o all’espulsione dei partiti dell’estrema destra italiana. Per questo motivo, sono in molti a parlare di reintermediazione – o «(neo)intermediazione» [p. 117].
Nel corso del saggio, Monti sottolinea a più riprese l’esistenza di una naturale affinità elettiva tra populismo e piattaforme digitali. Allo stesso tempo, con lo sviluppo della discussione, l’autore arriva ad affermare che, a ben vedere, anche da questo punto di vista è possibile rintracciare una certa ambivalenza. I populisti, in nome del principio della libertà di stampa (invocato – a seconda del contesto – facendo riferimento al paradigma della libertà di espressione e informazione dell’art. 10 della CEDU e dell’art. 21 della Costituzione italiana, o al Primo Emendamento), sono istintivamente portati ad opporsi ad ogni tentativo di regolamentazione della sfera social (si pensi «alla reazione di completa contrarietà e forte opposizione del Movimento 5 Stelle alla proposta del Presidente dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) di contrastare la disinformazione online tramite il controllo di un’autorità indipendente» [p. 129]). Tuttavia, essi sono pronti a rivedere le proprie posizioni qualora subiscano la controffensiva da parte di quegli stessi mezzi che sfruttano per diffondere la propria propaganda – si consideri, in questo senso, il tentativo trumpiano «di impedire ai social network di fare scelte editoriali sui contenuti politici» [p. 128] per mezzo dell’Executive Order on Preventing Online Censorship, Infrastucture & Technology del 28 maggio 2020.
In conclusione, è possibile affermare che il filo rosso che lega i quattro saggi del volume sia il seguente: la maggior insidia rappresentata dalla politica di stampo populista risiede nella sua natura ambivalente; essa, infatti, non è in totale antitesi con le categorie del costituzionalismo, tuttavia, interpretandole in maniera distorta, non arriva ad aderirvi realmente. È precisamente per questa ragione che mimetismo e parassitismo divengono le chiavi di lettura adottate dagli autori: il populismo è mimetico perché fa riferimento alle clausole costituzionali per difendere le proprie argomentazioni, e parassitario perché l’uso che ne fa è, per così dire, parziale (e strumentale), funzionale, cioè, a supportare una determinata impostazione.
Ci sia consentito di avanzare un’ultima notazione: il volume in oggetto dimostra i vantaggi della ricerca interdisciplinare. L’indagine è infatti condotta dai quattro autori secondo un’impostazione e, conseguentemente, secondo categorie, tipicamente giuridiche, ma i risultati ottenuti non si discostano affatto da tesi già ampiamente diffuse in ambito politologico, arricchendone pertanto la profondità argomentativa.
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