Luigi Lacchè, La Costituzione nel Novecento. Percorsi storici e vicissitudini dello Stato di diritto, Giappichelli, Torino, 2023, pp. 183.
di Riccardo Cavallo
“Costituzione e Novecento: un binomio indefettibile e al tempo stesso problematico”. Questa lapidaria affermazione, riportata anche nella quarta di copertina, riassume come non mai il Leitmotiv del volume di Lacchè, il quale descrive le alterne vicende della forma e della sostanza della Costituzione (e dei suoi protagonisti) che si snodano ben oltre l’ambito novecentesco e che, agli occhi dell’Autore, si presenta diviso a metà, caratterizzato dall’alternarsi di momenti di paura e di speranza. Una perigliosa navigazione nei marosi della storia del costituzionalismo a partire dalla comparazione tra lo Statuto Albertino concesso da Carlo Alberto ai sudditi del regno di Sardegna (1848) e la Costituzione repubblicana entrata in vigore un secolo dopo (1948).
Nel tracciare analogie e differenze tra la prima costituzione liberale e la nostra Carta costituzionale, Lacchè affronta alcune questioni sottese alle due esperienze costituzionali, tra cui, le diverse fonti di legittimazione, i rispettivi regimi di temporalità, la disciplina costituzionale dei diritti. Successivamente, l’Autore allarga il suo acuto sguardo verso la terribile e al tempo stesso affascinante parabola weimariana e si sofferma sui suoi riverberi nella giuspubblicistica italiana poco attratta dal laboratorio tedesco, ad eccezione, della figura di Costantino Mortati. Proprio quest’ultimo rappresenta forse uno dei pochi studiosi che si è cimentato in maniera quasi solitaria (ma lungimirante) con i concetti fondamentali del lessico giuridico messi a punto, in quegli anni difficili, dagli esponenti più rilevanti della scienza giuridica antiformalistica (Carl Schmitt, Rudolf Smend, Hermann Heller, Gerhard Leibholz).
Lacchè s’immerge altresì nell’analisi del processo di costituzionalizzazione avvenuto durante il Ventennio usando una chiave di lettura insolita che, pur riconoscendo l’importanza del rapporto continuità/discontinuità tra Stato liberale e regime fascista, insiste su quel coacervo di leggi, provvedimenti, atti politici che, in virtù dell’elasticità dello Statuto, hanno impresso “profonde modifiche formali, desuetudini, innovazioni di vario segno” (p. 95). Il vero e proprio artefice di questa nuova stagione, com’è noto, è stato soprattutto l’allora guardasigilli Alfredo Rocco, il cui compito doveva essere quello di procedere in maniera del tutto radicale, rispetto alle proposte moderate avanzate dalle diverse Commissioni, alla costruzione dell’edificio costituzionale fascista che, comportava, in primis, la preminenza dell’Esecutivo sul Legislativo.
Questo incessante lavorìo – che si era protratto all’incirca per tutto il Ventennio e che aveva progressivamente concentrato il potere nelle sole mani di Mussolini – necessitava di un ultimo passaggio, cioè quello di mettere insieme le diverse tessere del mosaico al fine di delineare la nuova carta costituzionale fascista. Malgrado gli innumerevoli sforzi in tal senso, tale progetto già gravato da alcuni limiti strutturali, quali la presenza del Vaticano e la convivenza con la Monarchia, rimase sepolto, però, sotto le macerie del regime.
Lacchè (nella foto, a sinistra) non manca di confrontarsi anche con la fase aurorale del processo di costruzione di un’Europa libera e unita evidenziando l’attualità del manifesto scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nell’isola di Ventotene. In un drammatico scenario segnato dall’esilio e dalla prigionia, questi due intellettuali riescono a predisporre il documento più significativo del costituzionalismo politico europeo, federalista e democratico i cui valori, a distanza di oltre ottant’anni dalla sua stesura, risultano ancora attuali e non del tutto realizzati. In altri termini, tale Manifesto, secondo Lacchè, può essere interpretato – evocando le geniali categorie dello storico e filosofo tedesco Reinhart Koselleck – come uno scritto esemplare di quell’intreccio tra “spazio di esperienza” e “orizzonte di aspettativa”.
Dopo essersi misurato con la complessità semantica nonchè con le metamorfosi e le diverse declinazioni dello Stato di diritto che, contrariamente alla vulgata, non va inteso sic et simpliciter nell’accezione ormai dominante di Rule of Law nel milieu inglese o americano, ma che va necessariamente distinto dal Rechtstaat tedesco oppure dall’État de droit francese, il volume si chiude, tra le altre cose, con la messa in guardia derivante dall’utilizzo di alcune categorie, come quella di stato di eccezione in un contesto emergenziale come quello pandemico, del tutto diverso da quello della sua originaria elaborazione.
Se tale inaspettata situazione è può considerarsi una sorta di stress test per lo Stato democratico e la stessa Costituzione italiana, al contempo essa ha dimostrato, ancora una volta, la loro solidità e tenuta. Non si può pertanto non concordare con quanto affermato Lacchè nelle battute finali, laddove scrive: “la consapevolezza storica dei paradigmi ci aiuta forse a capire meglio, come giuristi in munere nostro, il presente ‘confuso’ che stiamo vivendo. Usare le parole avendo coscienza della loro complessità storico-concettuale non è un lusso”.
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