di Roberto Valle
“Francamente parlando, ero e sono rimasto un teppista da sobborgo operaio”: questa confessione del teppista, non dissimile da quelle di Esenin e di Majakovskij, si trova nel Diario di un fallito di Eduard Limonov, scrittore maudit idolo dell’underground sovietico e post-sovietico.
Affermando l’idea di una “altra Russia” senza Putin, Eduard Limonov (pseudonimo di Eduard Savenko; Limonov deriva sia da limon, limone, ed è un omaggio all’umore acido e bellicoso dello scrittore, sia da limonka, che significa bomba a mano) è il poeta lirico della violenza rivoluzionaria e della distruzione dell’attuale sistema politico russo.
In epoca sovietica, Limonov è stato più un refrattario che un dissidente; dal 1974 è stato esule antioccidentalista negli Stati Uniti dove ha lavorato come maggiordomo di un miliardario; negli anni Ottanta è stato a Parigi; negli anni Novanta ha combattuto a fianco dei četnici serbi, Arkan e Karadžić, nella guerra in Bosnia; tornato in Russia, lo scrittore teppista ha fondato il Partito Nazional-Bolscevico e il giornale “Limonka”. Limonov – che nel periodo del suo esilio ha soggiornato anche in Italia – è un estimatore di D’Annunzio, annovera tra i suoi “mostri sacri” Mussolini, Pasolini ed Evola e si considera un avventuriero che prova piacere a rovistare nelle “interiora della storia”.
Lo scrittore maudit è l’eroe eponimo di Limonov di Emmanuel Carrère (P.O.L., 2011) che è una sorta di anatomia delle “interiora” del teppista e narra la vita romanzesca e pericolosa di un voyou, di una canaglia, di un individuo dai costumi abietti che vive per lo più sulla strada. Limonov le voyou agisce sempre per dispiacere gli altri e si rende deliberatamente insopportabile: dopo avere sognato di morire giovane in una guerra rivoluzionaria, lo scrittore teppista è oggi ultrasessantenne e ha ormai raggiunto l’“età dei profeti”.
Limonov non è amato dalla Russia di Putin (dal 2001 al 2003 è stato in prigione, perché accusato di volere destabilizzare il Kazachstan, di traffico d’armi, di costituzione di banda armata e di terrorismo) ed egli vede nel proprio futuro sia la possibilità di ricevere il Nobel, sia la possibilità di ricevere “una pallottola in fronte” dai suoi nemici.
Carrère conferma il proprio talento nel narrare vite che non sono la sua e come nel caso di Io sono vivo e voi siete morti (1993), una biografia di Philip Dick, traccia il ritratto di un artista eresiarca cantore della violenza e della dissolutezza totale, che gioca la propria eternità in una vita che appare come un interminabile viaggio in un oltretomba mondano popolato di spettri. Tuttavia la biografia di Limonov non si riduce a un esercizio di ammirazione: Carrère non ritrae lo scrittore teppista come uno stucchevole santo maledetto e martire refrattario alla legge e alle convenzioni, ma come un bastardo, come un vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados, come un aedo dell’epica del fallimento e della distruzione, come una figura emblematica di un’epoca caratterizzata dalla crisi del sistema sovietico e dalla catastrofe geopolitica dell’Urss.
Dalla vita avventurosa di Limonov, simile a quella di Barry Lyndon o del conte di Montecristo, si può trarre la narrazione della storia non ufficiale ma eccentrica e scellerata della Russia e dell’Occidente dalla guerra fredda all’ascesa di Putin. Narrando la vita di Limonov, Carrère da un lato rivela i paradossi terminali del tardo totalitarismo sovietico e del “bordello” postcomunista, oscillante tra la transizione criminalizzata all’economia di mercato e la guerra civile, dall’altro si ricollega idealmente ai propri avi russi, essendo sua madre, Hélène Carrère d’Encausse storica della Russia e accademica di Francia, figlia di russi bianchi emigrati dopo la rivoluzione.
Hélène Carrère d’Encausse in Esplosione di impero ha previsto alla fine degli anni Settanta la dissoluzione sovietica e all’epoca della perestrojka ha condiviso con Limonov, negli anni Ottanta scrittore alla moda a Parigi, l’idiosincrasia per la gorbymania: per lo scrittore teppista, Gorbačëv, quale leader sovietico, non doveva compiacere i giornalisti occidentali, ma doveva fare paura all’Occidente.
Nella sua opera letteraria, Limonov ha posto al centro il proprio io debordante che ingloba anche la realtà circostante frantumandola in frammenti illogici e deliranti: il suo romanzo di esordio, infatti, è una sorta di dichiarazione di poetica ed è intitolato Sono io, Edička (1976, pubblicato in Italia nel 1985 con il titolo Il poeta russo preferisce i grandi negri). Josif Brodskij, che lesse il dattiloscritto del romanzo che circolava a New York come un samizdat, ha paragonato Limonov a Svidrigailov, il personaggio più perverso e negativo di Delitto e castigo di Dostoevskij, un uomo dalla sensualità depravata che non pone ostacoli alla libidine e alla violenza.
Nell’ambiente letterario russo e internazionale, Limonov ha considerato Brodskij, premio Nobel nel 1987, come il suo nemico principale, come un giovane poeta prodige vezzeggiato in patria, soprattutto da Anna Achmatova, e in Occidente. Nella mitologia personale di Limonov il “nemico giurato” è una figura essenziale ed è rappresentato come l’intrigante che non ha un talento eccezionale, ma che riesce meglio nella vita.
In ambito politico, i nemici principali di Limonov sono Dugin e Putin. Nel 1994 Limonov ha fondato insieme a Dugin il Partito Nazional-Bolscevico, un melange di radicalismo di destra e di sinistra, “condito con misticismo e avanguardia”. All’epoca della comune militanza nel Partito Nazional-Bolscevico, Limonov ha considerato Dugin come una sorta di dottor Goebbels, l’uomo di pensiero capace di indicare una strategia per la presa del potere in Russia nel periodo dei torbidi della presidenza di El’cin. Per Carrère, il pensiero politico di Limonov è “confuso e sommario” e sotto l’influsso di Dugin, una sorta di brahamano dell’ideologia, è diventato “ancora più confuso”, anche se meno sommario.
Nelle sue fumisterie mistico-avanguardiste, Dugin, che si considera il più grande filosofo della seconda metà del XX secolo, mostra venerazione sia per il fascismo, sia per il comunismo e accoglie nel suo pantheon Lenin, Mussolini, Hitler, Majakovskij, Evola, Mishima, Jünger. Tra i personaggi venerati da Dugin c’è anche il barone Urgern von Sternberg, un aristocratico lettone violentemente antibolscevico che nel 1918 si era insediato in Mongolia e coltivava il sogno di far rivivere il grande impero mongolo. Ispirandosi in parte al barone Urgern von Sternberg e alla sua idea di creare un grande Stato eurasiatico, Dugin ha lasciato i nazional-bolscevichi e ha fondato il partito eurasista sostenitore di Putin. Limonov, invece, ha aderito insieme all’ex campione mondiale di scacchi Kasparov all’eteroclita coalizione Altra Russia e considera Putin il suo nemico giurato da abbattere con una rivoluzione. Limonov definisce Putin un padre “estraneo e malvagio”, “un burocrate triste, solo e sterile”, che ha come modello estetico e politico l’autocrazia della Russia zarista.
Come negli anni del suo soggiorno parigino, Limonov continua ad apparire a Carrère come un adorabile barbaro. Per Carrère, la rivoluzione nazional-bolscevica, con la sua nostalgia del bolscevismo originario, è un’ulteriore espressione dell’epica del fallimento. Limonov dovrà rinunciare alla presa del potere e ritirarsi a Samarcand o come un Rudin, l’uomo superfluo del romanzo di Turgenev, sarà costretto a morire per una causa non sua, per l’odiata democrazia.
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