di Federico Donelli

La Turchia nel corso degli ultimi mesi ha più volte respinto le pressioni provenienti dal mondo arabo e da diversi Paesi occidentali che le chiedevano insistentemente un maggior impegno, fino ad un eventuale intervento diretto, per la risoluzione della crisi siriana. Ad animare tali richieste vi è la diffusa convinzione che la Turchia rappresenti l’unico Stato regionale a godere di un’autorità tale da riuscire a destreggiarsi tra i molti attori che operano ufficiosamente nel contesto siriano.

Dietro al continuo rifiuto del governo di Ankara si celano perplessità relative ai futuri equilibri del dopo Assad e alle effettive conseguenze che una azione armata turca comporterebbe nell’intera regione. Durante i colloqui avuti dal Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan con diversi capi di governo, tra cui il Presidente Obama, non è stata esclusa la possibilità di un appoggio militare turco, tuttavia tale eventualità potrebbe realizzarsi esclusivamente all’interno di una azione guidata dallo NATO o, scenario ancora meno probabile, dall’ONU.

Erdoğan è consapevole delle possibilità che la situazione siriana offre alle ambizioni geopolitiche turche; infatti, la caduta del regime alawita di Damasco assesterebbe un duro ad un altro importante attore regionale: l’Iran. La Repubblica islamica gode di una special relationship con la famiglia Assad da più di vent’anni ed un cambio di regime nei prossimi mesi comporterebbe un generale ridimensionamento delle proprie aspirazioni nella regione soprattutto perché andrebbe a spezzare quella rete di collegamento che da Teheran arriva al Libano (Hezbollah) passando per Baghdad e Damasco, rete da molti ribattezzata “Internazionale sciita”.

Il campo siriano però è anche luogo di incontro/scontro con un altro importante attore mediorientale a cui la Turchia guarda da tempo con diffidenza, ovvero l’Arabia Saudita. Dall’inizio delle rivolte arabe nella primavera del 2011 è in atto una vera e propria guerra di influenza con i sauditi per riuscire ad affermarsi come vera guida e punto di riferimento per i nuovi governi nati in Libia, Tunisia ed Egitto. Se Riyadh può contare su un’immensa disponibilità di risorse e sulla forza del proprio messaggio islamico wahhabita, Ankara vuole provare a capitalizzare al massimo l’ammirazione delle masse nei suoi confronti esportando il proprio modello di Paese in via di sviluppo (PIL + 9% nel 2011) che ha saputo adottare paradigmi politici ed economici storicamente ed erroneamente considerati inattuabili nel mondo musulmano. In quest’ottica fondamentale risulta essere il ruolo del suo leader Erdoğan il quale riflette con successo le peculiarità del modello turco, in cui la modernità e il mercato incontrano la tradizione e l’Islam.

In Siria la Turchia e l’Arabia Saudita collaborano da tempo in appoggio ai ribelli anti regime, i sauditi operano sfruttando l’azione di diverse frange salafite proveniente dal Libano e dalla Giordania mentre la Turchia fornisce assistenza e appoggio logistico attraverso veri e propri corridoi di rifornimento districati a sud della città turca di Adana.

La cautela turca è dettata dalla presenza in territorio siriano di una vasta comunità curda (circa 3 milioni) il cui gruppo di riferimento, Partito dell’Unione Democratica (PYD), ha recentemente annunciato di aver assunto il controllo di alcuni città nel governatorato di al-Hasakah. La possibilità che le forze curde operino al fine di instaurare uno Stato indipendente nel nord della Siria spaventa Erdoğan, il quale è conscio delle ricadute che una tale azione avrebbe sui già delicati rapporti con i curdi presenti in territorio turco.

Ulteriore elemento che allontana Ankara da un possibile intervento è il fatto che una azione militare in Siria avrebbe ripercussioni negative in termini di popolarità all’interno della Turchia, dove i principali canali mediatici ritraggono una situazione in cui l’intervento sarebbe considerato dall’opinione pubblica esclusivamente un atto di assoggettamento nei confronti degli Stati Uniti.

Tutti questi elementi suggeriscono che la Turchia difficilmente opterà per un intervento su territorio siriano, una scelta non tanto dettata da debolezza quanto piuttosto da una maturità politica ormai acquisita che le impone cautela e scelte pragmatiche in una situazione delicata quale quella siriana.

 

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