di Alessandro Campi
Dopo quello che è successo a Roma nei giorni scorsi – gli scontri e i disordini all’esterno della struttura di accoglienza per immigrati di viale Giorgio Morandi a Tor Sapienza – appare sin troppo banale il paragone, che subito è stato avanzato, con le violenze e le tensioni che altrove in Europa già si sono verificate in alcune grandi metropoli, dove la presenza di vaste comunità d’immigrati, spesso relegate a vivere in periferie inospitali e degradate, è ormai la regola.
Così come è davvero troppo facile prendersela – come hanno fatto alcuni osservatori ed esponenti politici – con le pulsioni razziste di minoranze facinorose e violente, che le forze di polizia hanno il compito di tenere a freno e reprimere. Quasi che il problema fosse soltanto d’ordine pubblico, non riguardasse il livello politico e nulla avesse a che vedere con i problemi e le ansie di una comunità.
La vicenda di Tor Sapienza, stando alla cronaca, sembra avere invece una sua specificità, riguardo alle cause che l’hanno prodotta e agli effetti che potrebbe determinare, sulla quale conviene riflettere.
Per cominciare, diversamente dai disordini spesso avvenuti nelle banlieu parigine, a Roma la polizia non si è scontrata direttamente con le comunità immigrate, ma con i residenti del quartiere, i quali a loro volta hanno dato vita – per autodifesa, secondo la loro giustificazione – ad una vera e propria guerriglia assediando il centro che accoglie i profughi. Nel nostro caso non c’entra nulla la difficoltà a integrarsi o a essere accettati degli immigrati di seconda generazione, che vedono nello Stato di cui sono cittadini a pieno titolo un potere arbitrario e discriminatorio. Qui stiamo parlando di una situazione diversa, nel segno di una disperazione doppia e speculare: quella degli immigrati ospitati nei centri cosiddetti di accoglienza, senza avere nulla da fare se non spesso delinquere, ammassati in queste strutture in attesa di un transito o di un lavoro che non arriverà mai; e quella di cittadini che si sentono assediati, costretti a vivere in una condizione di crescente insicurezza e ai quali nessuno sembra voler dare ascolto.
Ed è proprio questa la novità da non sottovalutare. La protesta di questi giorni, per quanto ingiustificabile nelle sue forme, sembra nascere da un’esasperazione reale della gente, da un disagio che è troppo facile denunciare come retrivo o assimilare alla xenofobia quando si ha la fortuna di vivere lontano da certe tensioni o in contesti urbani non toccati dalla criminalità di strada, dalla bruttezza e dalla promiscuità sociale. Se il razzismo è un sentimento inqualificabile, la supponenza degli antirazzisti da cattedra è qualcosa di egualmente intollerabile. Quando una comunità alza la voce andrebbe ascoltata da chi la governa, invece di limitarsi a impartirgli lezioni di tolleranza e di civismo. Se la rabbia collettiva non giustifica il ricorso alla violenza o alla giustizia privata, limitarsi a dichiarazioni pubbliche di condanna è infatti spesso un modo per nascondere le proprie responsabilità e colpe dietro una mare di belle parole.
Se una lezione si può trarre dalla situazione esplosiva che si è creata a Roma, ormai da mesi, essa riguarda proprio l’incapacità della classe di governo italiana, a tutti i livelli, ad affrontare il nodo dell’immigrazione (a partire da quella clandestina) se non ricorrendo ai buoni sentimenti (utili a salvare la propria rispettabilità pubblica) e a misure di corto respiro nel segno di una continua emergenza e di un senso di improvvisazione spacciato per umanitarismo. Il risultato di tanta miopia o insipienza è quello che abbiamo sotto gli occhi: la mancanza di qualunque regolazione e gestione dei flussi immigratori da parte dello Stato e delle sue articolazioni, a mala pena compensata dall’impegno volontario dell’associazionismo laico e religioso.
Inutile ricordare che è proprio nella latitanza del potere pubblico che si incuneano facilmente coloro che pensano di poter lucrare consensi elettorali sul risentimento sociale e sulla paura. Quanto ci metterà i leghisti di Salvini, con i loro alleati dell’estrema destra romana, a proporsi come i portavoce di quei cittadini che lo Stato non solo ha smesso di ascoltare, ma che nemmeno ritiene di dover proteggere o garantire, nella convinzione che le loro ansie siano soltanto irrazionali e immaginarie?
I cronisti che si stanno occupando di Tor Sapienza hanno opportunamente segnalato il rischio di infiltrazioni malavitose nella protesta e gli aspetti torbidi che simili vicende, proprio perché muovono istinti sociali elementari, sempre presentano. Ma quando a mobilitarsi sono le famiglie, con mamme e nonne in prima fila, quando episodi analoghi si vanno ripetendo nel tempo, forse bisognerebbe interrogarsi su quel che sta realmente accadendo e prendere provvedimenti, prima che la situazione, lasciata a se stessa, degeneri ulteriormente. Al Campidoglio da giorni tiene banco, in un crescendo morboso e persino ridicolo, la vicenda delle multe non pagate dal Sindaco Marino. Nei palazzi della politica nazionale ci si interroga ossessivamente sulla tenuta del Patto del Nazareno. Si dovrebbe avere la forza di comprendere che forse i problemi politici da affrontare – a Roma, in Italia – sono anche altri, ben più profondi e gravi.
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