di Marino Freschi

heidegger-300x225All’inizio del ‘900, in un paio di decenni la poesia tedesca con Stefan George, Rilke, Trakl e gli espressionisti aveva imposto alla civiltà intellettuale, estetica e filosofica, tedesca una apertura spirituale che segnò profondamente il suo principale rappresentante Martin Heidegger, che, avviluppato nella crisi originata dalla sua opera più imponente, Essere e Tempo, si era arenato in una contraddizione che non pareva trovare una via d’uscita teoretica. Nel vortice della crisi Heidegger muta coraggiosamente la sua prospettiva di ricerca, realizzando quella che lui stesso definì la Kehre, la “svolta” quale modalità di rapportarsi all’essere. Vi è l’abbandono della prospettiva esistenzialistica per una deriva originale nel senso etimologico di risalire all’origine e l’origine è il linguaggio quale “dimora dell’essere”, offerta per Heidegger proprio dalla poesia, “Poesie”, quale fare, azione creatrice e all’interno di questa creazione il primato è della Dichtung, della lirica, della poesia in senso stretto. In questa ottica i poeti diventano i veggenti dell’essere, i profeti e tra loro Hölderlin viene riconosciuto come il maestro della parola, il grande vate che ha reso possibile la “svolta”, colui che ha resuscitato in tedesco lo spirito sacro dell’Ellade, conciliato col messaggio di Cristo.

Dopo 80 anni esatti, torniamo ancora ad interrogarci come mai il discorso della “svolta” filosofica del massimo pensatore del ‘900, sia stato tenuto il due aprile del 1936 proprio a Roma, a Villa Sciarra, nella sede dell’ Istituto Italiano di Studi Germanici, fondato da Giovanni Gentile. E sabato due aprile una tavola rotonda ha ricordato a Villa Sciarra, quello che è stato il più memorabile evento nella storia dell’Istituto.

Aver scelto Roma, luogo altamente simbolico, corrispondeva alla sensibilità intima del pensatore della Foresta Nera. Il pubblico era quello delle grandi occasioni, internazionale, perfino con la presenza di intellettuali ebreo-tedeschi – tra cui Paul Oskar Kristeller -, che credevano ancora possibile trovare un asilo nell’Italia fascista. Nella sua allocuzione Heidegger insiste sul fatto che non esiste apertura di mondi che non sia, in qualche modo, un evento linguistico. Il filosofo cita un verso di Stefan George: «Nessuna cosa è dove la parola manca». Il linguaggio si rivela, dunque, casa o luogo di cui l’uomo non è il proprietario, ma l’ospite, poiché non è tanto l’uomo a possedere il linguaggio, quanto il linguaggio a possedere l’uomo. E il linguaggio che meglio rivela la sua essenza è quello poetico. In quest’ultimo avviene l’automanifestazione dell’essere, come afferma Heidegger nel discorso romano, pubblicato col titolo Hölderlin e l’essenza della poesia. La parola poetica, coincidente con l’area del dire primordiale, si configura come creatrice di civiltà e cultura, misteriosa epifania dell’essere. I poeti forniscono al popolo la sua identità e istituiscono usanze e costumi. La poesia è «il linguaggio originario di un popolo» e «il fondamento che regge la storia». Ed è attraverso il dialogo con la poesia che il pensiero filosofico per Heidegger si avvicina all’essenza del linguaggio, e quindi all’essere: «Il linguaggio è la casa dell’essere e i pensatori e i poeti sono i custodi di tale dimora». Tutto ciò fa sì che, con la “svolta”, il pensiero di Heidegger si concretizzi in un intenso colloquio con gli antichi filosofi greci e con la voce dei poeti. In particolare con Hölderlin, che egli eleva a interprete privilegiato della modernità. I Greci, l’Ellade, Hölderlin, teoresi e poesia: tutto ciò risuonava drammaticamente nella sala di Villa Sciarra nel 1936 ed era il canto del cigno della grande cultura germanica, aggredita dalla brutale demagogia nazionalsocialista. Era come se il grande filosofo di Messkirch, lui stesso corresponsabile della barbarie, volesse ancora una volta, per l’ultima volta, credere e far credere alla sublime purezza sacrale del pensiero tedesco, che, però, non esisteva già più.

 

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