di Leonardo Raito
1. Dati preoccupanti dalle ultime elezioni
Il dato sulla partecipazione all’ultima tornata di elezioni amministrative, rende più preoccupata la riflessione sullo stato di salute della democrazia italiana. Mai, nella storia repubblicana, le elezioni comunali, quelle che vanno a eleggere l’organo politico più vicino ai cittadini, avevano avuto una partecipazione complessiva appena superiore al 50%, evidenziando, da un lato, che ormai il principale partito italiano è il silenzioso partito dell’astensione, e, dall’altro che servono autentici miracoli per rivitalizzare una scena pubblica mai così moribonda. Ma c’è un altro fattore che, a mio avviso, va tenuto in debita considerazione: l’aumento dell’uso dei social media non ha indotto una crescita di partecipazione alle occasioni “fisiche” e “reali” della democrazia, che si esercita con il diritto di voto; ha invece portato a un ulteriore allontanamento dei cittadini dalle scene della politica, incrementando un uso dei social che destruttura luoghi e strumenti propri della partecipazione. Il tema è complesso, e difficile da contenere in poche righe, ma proviamo a farci capire.
2. Social media e partecipazione
I social media rappresentano senza dubbio piazze virtuali che incentivano il confronto: si può discutere di temi, si possono condividere opinioni, si possono organizzare sondaggi e raccolte di impressioni. Tutte cose che con la politica hanno a che fare. Ma se dibattito, proposta, raccolta di impressioni si esauriscono sul social, viene a mancare quel ponte fondamentale tra teoria e pratica che rischia di creare un cortocircuito nella democrazia. C’è poi il modo di utilizzare lo strumento social. Una piazza virtuale può essere agorà nel senso alto del termine, ma può anche essere bar dello sport, dove tutti si sentono in diritto di discutere di tutto e di tutti, di lasciarsi andare in apprezzamenti pesanti, in critiche, in offese di pancia che poco hanno a che fare con un serio dibattito alto, mediato e organizzato. In questo caso, quando la democrazia virtuale diventa “urlo-crazia”, quando la piazza virtuale diventa sfogatoio di tutti gli istinti repressi da parte di gente che in pubblico non direbbe una parola, ma che di fronte a una tastiera si sente un leone, è chiaro che qualcosa non funziona. Certo, con partiti che hanno sempre meno iscritti, con una selezione poco trasparente della classe dirigente, con una situazione di crisi perdurante e che non ha precedenti nella storia recente, qualcosa occorre inventare. Ma, e questo pare certificato anche dagli esiti delle ultime elezioni, non è detto che la risposta sia la promozione tramite rete di soggetti che si improvvisano politici e amministratori, producendo disastri come a Roma la povera Raggi, che se dovessi usare una metafora sembra quasi un topolino in una gabbia di gatti. Insomma, in tempi in cui i social sono pieni e le urne vuote, non si può stare troppo sereni sui mali che affliggono il nostro paese.
3. Rivitalizzare la democrazia. Si, ma come?
Si potrà trovare una medicina alla crisi della nostra democrazia? Noi lo speriamo, da inguaribili ottimisti, ma le ricette non sono facili, e se guardiamo alla situazione dell’attuale sistema partitico, c’è da far scattare più di qualche campanello d’allarme. Alla prova di governo, ad esempio, i Cinque Stelle hanno dimostrato tutti i limiti di un’organizzazione basata su una socializzazione semi-settaria di un blog. Non sempre le aspettative di competenza trovano risposta in una selezione online. La Raggi a Roma è esempio palese delle enormi difficoltà con cui ci si deve misurare nella gestione dei territori; Pizzarotti a Parma dimostra invece che il movimento è a continuo rischio frattura, e chi esce può fare molto male. Il fatto che i grillini siano rimasti fuori anche da molti comuni in cui governavano o avevano un peso specifico, pare emblematico di una fase di crisi che chissà se potrà essere riassorbita. Ma se Sparta piange, di sicuro Atene non ride. Il Pd renziano non ha ancora assorbito lo smacco della sconfitta referendaria. È vero che Renzi è stato di nuovo incoronato leader di partito, ma i rapporti con il governo, i pezzi persi a sinistra, le tensioni con gli alleati di una maggioranza che sta esaurendo il suo lavoro, non depongono a favore delle prospettive di governo dei democrats. Non va molto meglio nemmeno a destra, dove le diverse forze faticano a trovare una piena composizione: troppi galli in un pollaio finiscono spesso per scornarsi, lasciando sul terreno morti e feriti. La Lega di piazza pare aver riacquisito un discreto bacino di consensi: ma basterà per governare? Forza Italia ha un problema, un leader ultraottantenne padre padrone che forse sta bloccando l’emergere di nuove forze. Eppure i dati delle ultime elezioni sembrano far propendere l’ago della bilancia per un passo verso il passato: già morto il tripolarismo? Si torna al tradizionale bipolarismo centrodestra-centrosinistra? Dipende molto dalle regole del gioco. Ancora ben lungi dal trovare una scrittura condivisa.
4. Un tema reale: la legge elettorale
Negli ultimi mesi il dibattito politico è stato quasi monopolizzato dalla riforma della legge elettorale, che più che riforma è una irrinunciabile priorità dettata dalla bocciatura costituzionale del Porcellum prima e dell’Italicum poi, con la tappa finale del referendum costituzionale che ha definitivamente affossato il percorso delle riforme avviato da Renzi & Co. Abbiamo assistito a un incredibile balletto di proposte che sembrava aver trovato una sintesi finale in un modello simil tedesco, proporzionale, che scaturiva da un accordo a quattro tra Pd, Forza Italia, Lega Nord e M5S, poi clamorosamente naufragato alla prova dei numeri in parlamento. Non so se la politica italiana, o forse sarebbe meglio dire, il sistema di quello che è rimasto dei partiti nazionali, riuscirà a trovare una strada per uscire dall’impasse ma pare evidente il clamoroso vuoto politico in cui è piombato il paese, con partiti sempre meno rappresentativi, guidati spesso da conventicole di dirigenti più attenti a preservare spazi di potere interni che a proporre dinamiche serie per portare fuori dalla crisi una democrazia che ha toccato il fondo in chiave di consensi, di voglia di partecipare, di rappresentatività. Proprio la crisi dei partiti è responsabile della crisi della democrazia partitocratica sorta nel dopoguerra e legittimata dalla costituzione. Quando i partiti perdono la loro funzione mediana tra popolo e istituzioni, quando non conoscono più la propria base elettorale, quando si trasformano da macchine a contenitori vuoti a disposizione, specie sotto elezioni, di questo o di quel leader, si viene a perdere tutta quella idealità che contribuisce a costruire consenso e fiducia reciproca. Resto dell’avviso che gli italiani abbiano buttato all’aria l’ultima grande occasione di far fare un passo avanti alla nostra repubblica in apnea, quel referendum che il 3 dicembre troppi hanno affrontato di pancia e non di testa, stoppando per sempre ogni velleità riformatrice. Il governo Gentiloni, oggi, è ostaggio di troppe logiche, specie di fronte all’alleanza fondativa tra Pd e Alfano che ormai non regge più. Mai come in un momento di incertezza come questo, che vede anche Mattarella richiamare all’ordine un parlamento confuso, con le possibili elezioni dietro l’angolo (e se non sarà autunno, comunque, sarà inverno) occorrerebbe uno scatto di responsabilità. I partiti dovrebbero scrivere regole del gioco durature, non una legge elettorale votata solo a non far vincere l’avversario più forte. Si tratterebbe di creare le condizioni per una normalizzazione, per una stabilità dei governi richiesta a gran voce dall’Europa, ma fondamentale anche per una cittadinanza forse troppo assopita o incazzata. Ma riusciranno i nostri eroi, per una volta, a frapporre l’interesse generale a quello particolare? Continuo ad avere i miei dubbi.
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