di Igor Pellicciari*
L’esito delle recenti elezioni presidenziali russe del 18 marzo 2018 è occasione per fare una serie di brevi considerazioni aggiuntive alle ricorrenti analisi, collegate idealmente al contributo pubblicato di recente su queste pagine sulle origini del consenso di Putin nella Russia degli ultimi due decenni (cfr. I. Pellicciari, Leadership of Leader? Alle origini del consenso di Putin, in “Rivista di Politica”, vol.4, 2017, p. 21-29).
Anche qui sposiamo un’interpretazione che va oltre – pur non negandola – la semplice raffigurazione del consenso nel paese legato esclusivamente alla figura carismatica del Presidente.
Il primo aspetto sorprendente è che al contrario delle aspettative, i risultati delle elezioni non sono stati al centro della recente polarizzazione dello scontro diplomatico tra Occidente e Russia, che si è invece avvalso di altri temi – primo tra tutti il caso Skripal.
Le tradizionali accuse di manipolazione del voto sollevate periodicamente gli anni scorsi contro la Russia ogni qualvolta essa abbia organizzato una consultazione elettorale hanno perso vigore – anche perché in questa occasione sono state mosse da Occidente con minore convinzione rispetto al passato.
A questo hanno contribuito due elementi che, combinati, hanno segnato una chiara affermazione politica del Presidente uscente, riconosciuta da tutti i principali osservatori, anche quelli tradizionalmente più critici verso il Cremlino. Si tratta dell’alta affluenza al voto (il 67,5% degli aventi diritto) e dell’altissima percentuale di consensi ottenuta da Putin (addirittura il 76,6%).
Il secondo dato non avrebbe lo stesso significato se disgiunto dal primo e avrebbe potuto rivelarsi un’arma a doppio taglio qualora accompagnato da un’alta astensione; giacché questa opzione era stata promossa come un messaggio anti-sistema da quello considerato – per la verità più in Occidente che in Russia – come il principale oppositore di Putin, ovvero Alexei Navalny.
Con un’affluenza nettamente più alta rispetto alle precedenti consultazioni – non scontata tenendo conto alla vigilia della prevedibile ri-elezione di Putin e della chiara politicizzazione dell’astensione – le presidenziali hanno perso gran parte del pathos post-elettorale, a tal punto che i media occidentali hanno dato meno eco del previsto alla consultazione a tutto vantaggio di altre vicende, come appunto il caso Skripal.
La stessa narrativa di un Putin-monarca al quarto mandato presidenziale ha attecchito meno del previsto, visto lo stesso traguardo raggiunto poco prima dalla Merkel alla cancelleria tedesca.
Il secondo aspetto interessante da sottolineare è cosa abbia spinto l’affluenza alle urne a un livello che ha superato le aspettative anche tra i più sinceri sostenitori del Cremlino.
Qui la vicenda elettorale si incrocia non a caso con quella del caso Skripal.
È probabile – a detta di molti osservatori e anche di chi scrive – che la reazione britannico-occidentale sull’avvelenamento della ex-spia abbia ottenuto come reazione un compattamento dell’elettorato a difesa di quello che veniva percepito come un deliberato attacco diplomatico alla Russia.
Interessante è notare tuttavia che il timing della reazione occidentale alla vicenda Skripal sia stato subito da Mosca e scelto dalla stessa Gran Bretagna, che lo ha coscientemente fatto esplodere proprio in prossimità delle elezioni russe, nella probabile convinzione che questa circostanza avrebbe portato a una disaffezione elettorale – se non a una vera e propria protesta di piazza.
In realtà è accaduto esattamente il contrario.
Questo spettacolare errore di valutazione dimostra a nostro avviso il cronico oversight di fondo del Foreign Office sul sistema politico russo e sulla struttura di quel consenso che ci siamo sforzati a descrivere nel saggio richiamato qui all’inizio – e che vede al centro non tanto il carisma del presidente quanto un sistema di riforme politiche, sociali ed economiche a vantaggio della emergente classe medio-bassa del paese e che coincide in larga parte con il mastodontico apparato della funzione pubblica.
La volontà di difesa di questa ritrovata stabilità economico-sociale – più che un patriottismo sulle questioni internazionali o un carisma del Presidente – ha motivato a nostro avviso una maggiore affluenza alle urne e un rafforzato sostegno a Putin.
Il terzo aspetto delle elezioni da sottolineare è il risultato registrato dagli altri contendenti alla corsa presidenziale; ciò non tanto per i scarsi risultati percentuali raccolti dai concorrenti, piuttosto perché aiuta a capire lungo quali direttrici si strutturerà l’opposizione durante il prossimo periodo, archiviato lo scarso risultato dell’astensionismo di matrice navalyniana.
Il secondo candidato più votato è stato Grudinin, sostenuto dal Partito Comunista, che ha raccolto un non trascurabile 11,7%, che conferma la tradizionale strutturazione dello zoccolo duro dell’elettorato comunista in Russia ma, d’ altro canto, denota un restringersi numerico dello stesso rispetto il passato – a dimostrazione della sensazione che molti degli elettori comunisti – per lo più nostalgici della grandeur e del welfare sovietico – sono confluiti su Putin, trovandovi dei rassicuranti richiami al passato.
Piuttosto che la conferma personale del sempreverde Zhirinovsky con un buon 5,65% – frutto di una posizione populista-sovranista che di fatto lo colloca stabilmente da tempo alla destra di una “opposizione filo-governativa” – merita osservare come è uscita dalle elezioni Ksenija Sobchak, forse la candidata più improbabile alla vigilia di queste consultazioni.
Lanciata più dai social media che dalla militanza politica – figlia di ambienti tutt’altro che di opposizione anti-sistema e con una consistente attività mediatica – la candidatura della Sobchak è stata accolta con scetticismo se non ironia da molti ambienti tradizionali, seppure – importante sottolineare – non osteggiata dal Cremlino.
La Sobchak è riuscita a raccogliere circa 1.240.000 voti (1,68%), non molti in termini assoluti, ma che diventano interessanti se – come pare – sono prevalentemente collocati in un elettorato giovane e urbano; ovvero lo stesso a cui si rivolge Navalny.
In altre parole, la Sobchak potrebbe rappresentare il tentativo di creare un anti-Navalny capace di intercettare parte di quei millenials che – in Russia come in Occidente – si collocano fuori dai radar della comunicazione politica classica e rappresentano nel medio periodo un’incognita per qualsiasi sistema politico, non solo quello Russo.
L’ultima considerazione sull’esito delle elezioni riguarda – inevitabilmente – il futuro di questo quarto (e ultimo?) mandato di Putin.
Ligi a chiavi di lettura che nel comprendere la Russia privilegiano analisi dell’Impero piuttosto che dell’Imperatore, osserviamo che le elezioni russe sono state importanti non tanto per la prevista conferma del Presidente, quanto per un ulteriore rafforzamento della Presidenza.
In altre parole, a uscirne legittimati sono state la leadership politica e l’apparato governativo presidenziale (vero cuore del sistema politico-costituzionale) che sostiene Putin e a cui in ultima istanza spetterà decidere cosa e chi gli seguirà alla fine del suo mandato.
Né deve sorprendere che all’orizzonte non si intraveda nemmeno l’ombra di un possibile successore.
Dal periodo zarista passando per quello sovietico fino ad oggi, l’Occidente non è mai riuscito a prevedere né la tempistica né i protagonisti dell’avvicendamento al vertice in Russia – prendendone atto sempre il giorno dopo che questo si è realizzato.
Comunque vada, la priorità sistemica sarà di replicare e rafforzare l’attuale Presidenza piuttosto che il futuro Presidente.
* Professore dell’Università di Urbino
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