di Luca Marfé
NEW YORK – Donald Trump mostra i muscoli e il mondo trema.
Che gli Stati Uniti potessero uscire dall’accordo sul nucleare firmato con l’Iran era oramai cosa assodata. Ma del discorso del presidente americano vanno evidenziati i toni, violenti, e le sfumature di fondo che quasi prescindono dalle scelte e dall’atteggiamento di Rouhani e dei suoi.
Innanzitutto il significato delle parole, che nel linguaggio della diplomazia hanno un peso addirittura amplificato.
Il ripetersi insistente dell’espressione «regime iraniano». Come a voler dire, al proprio pubblico ma anche alla Comunità Internazionale intenta ad osservare alla finestra, “noi siamo i buoni, loro i cattivi”. La ricetta narrativa tipica, insomma, dell’aquila a stelle e strisce esportatrice di democrazia.
Prima ancora di diventare presidente, Trump ha costruito il suo personaggio, la sua campagna elettorale e questa fase iniziale della sua era sulle fondamenta dell’emergenza. Quasi alla ricerca di problemi attorno ai quali inventare delle soluzioni, così da potersi mostrare agli occhi dei suoi sostenitori con indosso le vesti di salvatore della patria.
Ebbene, dopo aver (parzialmente e temporaneamente) accantonato il dossier nordcoreano, il tycoon sembra aver individuato la sua prossima emergenza. Del resto, deve aver pensato, con Pyongyang e Kim Jong-un la tattica del muso duro pare aver funzionato, eccome. Dunque perché non ripeterla, questa volta affondando i colpi (delle parole, si spera) in Medio Oriente? “Rischiando”, peraltro, di avere ragione.
C’è un altro concetto, però, sul quale Trump ha scommesso da un pezzo: Obama ha reso gli Stati Uniti deboli, è sceso a patti con tutti, ha spogliato l’America del suo ruolo naturale di superpotenza.
Ed è proprio lungo il binario del disfacimento dell’eredità del suo predecessore che continua imperterrito.
Noi con l’Iran non trattiamo. Non più. Abbiamo buttato una marea di soldi ed il nostro Paese, no, non è affatto un posto più sicuro.
Questa l’estrema sintesi del suo messaggio. E tanti saluti ai sorrisi e alle strette di mano.
L’altro grande protagonista di questa delicata vicenda, sulle cui posizioni The Donald si è appiattito da tempo, è Israele. Con Netanyahu che, preda anche di enormi difficoltà interne, scalpita e non vede l’ora di alzare i toni nei confronti del nemico giurato di sempre.
Resta da chiedersi, ora che dalla Casa Bianca arrivano “rassicurazioni” di questo tipo, quanto sia disposto a rischiare il primo ministro, conservatore e nazionalista, pur di fare i conti con la Storia.
E in questo senso sì, l’imprevedibilità dell’irruenza militare del governo di Gerusalemme potrebbe tramutare la decisione di Trump in un imperdonabile errore.
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