di Danilo Breschi
La sociologia dei processi culturali è una disciplina che può rivelarsi quanto mai utile per decifrare la babele contemporanea, specie se a coltivarla è uno studioso del valore di Sergio Belardinelli, che insegna tale materia all’Università di Bologna. Pertanto risulta molto opportuna e stimolante la lettura di un libro come quello che ha da poco pubblicato con l’editore Rubbettino (L’ordine di Babele. Le culture tra pluralismo e identità, pp. 132, € 14). Sei capitoli per sei temi, “di scottante attualità”, come sottolinea lo stesso autore: la crisi dell’identità europea; il dialogo interculturale; il rapporto tra pluralismo, democrazia e verità; la religione e la ricerca di un’identità aperta, non aggressiva, ma nemmeno remissiva; il realismo e l’utopia in una società secolare; il tema della città.
Il punto di fondo dell’analisi di Belardinelli è la crisi del principio antropologico universale che sta alla base dell’identità europea e che si sostanzia nel trascendimento di sé, nella capacità di prendere le distanze da sé, e dunque di “apertura” nei confronti dell’Altro senza mai, per questo, smarrire il senso di questa peculiarità che è anzitutto culturale, e che ci distingue come europei.
Molteplici gli spunti di grande interesse e originalità sollevati dal libro di Belardinelli, su cui meriterà tornare in questa o altra sede. Mi limito qui ad un tema, il dialogo interculturale. Imparare dagli altri senza rinunciare a se stessi è l’indicazione proposta dallo studioso marchigiano per costruire una terza via tra i modelli antropologici fin qui dominanti, sia pur in accesa contrapposizione l’un contro l’altro: il “culturalista” e il “naturalista”. Modelli entrambi rei di riduzionismo, tali cioè da amputare l’essenza umana, che è plastica. “Il nostro telos – scrive Belardinelli – non si realizza in solitudine; ha bisogno degli altri, dipende dagli altri e dalla nostra libertà. Ebbene è questo il principio antropologico universale che sta alla base dell’identità europea, che ha consentito all’Europa di inglobare gli elementi culturali più disparati e di pensarsi non come una realtà geografica o etnocentrica, bensì intrinsecamente plurale”. A sostegno della propria tesi, il sociologo marchigiano si richiama a studiosi del calibro di George Steiner, Claude Lévi-Strauss, Helmuth Plessner, Max Scheler e Paul Ricoeur. Quanto mai persuasiva una citazione da quest’ultimo:
“Non siamo stati messi in moto dal fatto della pluralità umana e dal doppio enigma dell’incomunicabilità fra idiomi e della traduzione nonostante tutto? E poi, senza la prova dello straniero, saremo ancora sensibili all’estraneità della nostra lingua? […] Onore quindi all’ospitalità linguistica”.
Dunque Belardinelli suggerisce di prendere a modello del dialogo interculturale la traduzione linguistica, la cui essenza è un mettere in relazione, consapevoli che permarranno sempre “zone più o meno ampie di intraducibilità e di possibili conflitti”.
La suggestione della proposta di Belardinelli va però a cozzare con l’inquietudine suscitatami da un’altra lettura fatta in contemporanea. Si tratta del saggio scritto a quattro mani da Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, anch’esso uscito in questo primo semestre del 2018 (Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità, Einaudi, pp. 112, € 14,50). Anche di questo testo mi limito a prelevare i temi sollevati nel primo capitolo, i più stridenti con le proposte di Belardinelli. Temi suffragati da numerose statistiche e ricerche condotte da istituti nazionali e internazionali, governativi e non.
Tanto per cominciare: gli stranieri residenti oggi in Italia sono più di 5 milioni e provengono da 200 nazioni diverse. Ciò significa che abbiamo saputo anche integrare nel corso degli ultimi decenni, al di là di quanto si possa oggi sospettare. C’è però un dato che andrebbe sottolineato: si sta sempre più riducendo la percentuale di immigrati laureati (siamo attorno al 10%), mentre quelli più qualificati sono in fuga verso il nord Europa. Tra le altre cose, un’immigrazione dequalificata, scarsamente o per niente acculturata, presenta un ulteriore livello di difficoltà nel processo di integrazione che deve essere messo in atto.
A ciò va aggiunto un dato autoctono allarmante: il trionfo di un nuovo analfabetismo, che presenta due dimensioni. La prima è quella dell’analfabetismo funzionale, ovvero di chi legge e scrive, “ma non è in grado di collegare tutto ciò e di usarlo nella vita quotidiana e nelle relazioni con gli altri”. Un analfabeta funzionale può riconoscere e capire un cartello stradale che lo avvisa di una frana, ma “non riesce a comprendere le connessioni, e dunque i contenuti, di un semplice articolo di giornale”.
Questo ci dicono le statistiche dell’Ocse-Psa: gli analfabeti funzionali in Italia sono il 27,9% delle persone tra i 16 e i 65 anni, il 9,6% tra i 16 e i 24 anni e il 15% dei giovani tra i 25 e i 34 anni. È analfabeta funzionale 1 diplomato su 5 e addirittura il 4,1% del laureati. Come commentano De Rita e Galdo, si tratta, in totale, di 11 milioni di uomini e donne “che non sono in grado, nel corso della vita quotidiana, di usare in modo efficiente la lettura, la scrittura e il calcolo. E risultano incapaci, secondo la definizione di analfabeta funzionale dell’Unesco, di ‘intervenire attivamente nella società e nella politica’”.
La seconda dimensione del nuovo analfabetismo di cui l’Italia soffre più di ogni altro Paese europeo è quello cosiddetto “di ritorno”. Si tratta di coloro che, una volta terminato il percorso scolastico, dopo un certo arco di tempo regrediscono di cinque anni rispetto al livello raggiunto con il proprio titolo di studio. Ciò comporta per un giovane diplomato con la licenza liceale il ritrovarsi da grande con la stessa conoscenza linguistica di un ragazzo della terza media. In questa categoria l’Italia detiene il ben poco invidiabile primato europeo. Quasi superfluo aggiungere che tale regressione impedisce al soggetto di “esprimere il proprio diritto di cittadinanza e di potersi inserire in modo autonomo nella società” (formula usata dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani). Sommando gli analfabeti funzionali agli analfabeti di ritorno si arriva al 47% degli italiani. Esattamente la metà della popolazione nazionale.
Se questi dati sono veritieri, gran parte del ragionamento e delle proposte avanzate da Belardinelli si vedono franare la terra sotto i piedi. E aggiungo: purtroppo. Ma la politica come arte del (buon) governo dovrà tenere conto dei dati forniti nel libro di De Rita e Galdo. Potrà forse, un giorno, approssimarsi agli obiettivi ideali di Belardinelli solo se oggi farà i conti con la realtà e adottare misure che, prima di tutto, sanino questo impoverimento culturale del nostro Paese. Com’è possibile un dialogo interculturale tra allogeni di cui solo il 10% è laureato e autoctoni di cui il 47% è analfabeta (funzionale e/o di ritorno)?
Se è vero che comprendere è tradurre (G. Steiner) e che “ogni traduzione è sempre una interpretazione” (H.G. Gadamer), mi risulta difficile immaginare il modello della traduzione linguistica come soluzione praticabile nel contesto italiano odierno. Mancano le premesse di contesto sociale e culturale. Dalla loro (ri)costruzione dovrebbe ripartire una politica che sia all’altezza dell’identità europea. E questa è una possibilità. Ma ce n’è un’altra: una politica per essere applicabile, dunque trasmissibile nella realtà, deve tener conto dei suoi mittenti e dei suoi destinatari. Tanto più se intende operare in regime di libera rappresentanza, democratica e competitiva. Velleitario pensare di poter trasformare d’un colpo in alfabetizzati funzionali almeno un paio di decine di milioni di italiani. Belardinelli ritiene che “un mondo che va mescolando individui e popoli di ogni cultura ha bisogno in questo senso di traduttori-testimoni che conoscano bene la propria lingua e che abbiano sufficiente fantasia creatrice per tradurre quella degli altri e, quindi, tradurla in quella degli altri”.
Temo invece che questa via non sia politicamente spendibile. Data una diffusione così drammaticamente ampia di una “lingua impoverita in gergo plebeo” (De Rita-Galdo), ritengo ancora valida un’azione culturale indiretta, tale cioè che passi tramite un recupero di istituzioni ispirate ad un giusto equilibrio tra diritti e doveri, secondo la migliore tradizione filosofica, giuridica e politica europea. Una legge davvero eguale per tutti, ispirata a principi di libertà e giustizia, potrà essere meglio compresa e assorbita dalla generalità dei cittadini e potrà giovare ad una più efficace ed effettiva integrazione tra diversi. A patto che la si applichi davvero e non si faccia del diritto la continuazione di un disegno politico-ideologico con altri mezzi. A sinistra come a destra. La britannica rule of law va affiancata e corretta con la latina salus rei publicae suprema lex. Così Cicerone (De legisbus, I, § XV, 42-43):
È sommamente stolto stimare giusto tutto ciò che è sancito nelle leggi e nelle istituzioni dei popoli. Lo sarebbero anche le leggi dei tiranni? […] Unico è infatti il diritto che lega insieme la società umana, ed unica è la legge che l’ha costituita: cioè l’uso della retta ragione nel comandare e nel vietare. Chi l’ignora è ingiusto, sia essa scritta da qualche parte, sia che non lo sia.
[…] Se le fondamenta della giustizia non saranno nella natura, tutte le virtù spariranno. Dove potranno esistere la liberalità, la carità di patria, la pietà per gli dei, il meritare benemerenze da qualcuno, la riconoscenza? Tutte queste cose nascono dal fatto che noi per natura siamo propensi a prediligere gli uomini, il che è il fondamento del diritto.
Cosa poi sia “l’uso della retta ragione” è domanda diventata insensata nel corso del Novecento, e storicamente se ne intuiscono facilmente i motivi. Ma siamo andati ben oltre la doverosa autocritica. È da lì, da una ricostruzione di senso del razionalismo europeo che occorre ripartire in termini di politica culturale, affinché quella domanda torni ad avere una risposta. Impresa non ardua, impossibile, e forse anche nociva, si dirà. Ma siamo proprio sicuri che lo sia? E poi: non è forse nel razionalismo greco-romano che può tradursi ed esprimersi quell’universalità del principio antropologico che ha reso l’Europa uno spazio in cui l’apertura si è fatta la più umanamente ampia possibile? Culturalmente la sfida è forse tutta lì, nell’idea di natura umana. Se la vogliamo avere, e quale.
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