di Luigi Cimmino*
“Credo nella fedeltà ma non sono praticante” (Anonimo)
Difficile incontrare un traduttore, anche bravo, che non sia convinto dell’adagio per cui “tradurre è in parte tradire”. Ma perché?
Per tradire occorre essere ovviamente in due – coniugi, fidanzati, compagni – e i partner sono tali all’interno di un vincolo che li impegna oltre il loro comportamento di fatto, vincolo in virtù del quale il comportamento viene valutato: se non si dovesse e potesse essere fedeli svanirebbe anche l’amaro patito dal tradito e il brivido che infiamma il traditore. Ricordo un conoscente che negli anni settanta teorizzava con entusiasmo l’impossibilità teorica del tradimento. L’amore non è fatto – argomentava serioso – d’impegni contrattuali. X e Y formano una coppia solo nei momenti in cui si frequentano; se e quando Y si accoppia con Z – lo dice la parola, aggiungeva gongolante – una coppia si forma e l’altra svanisce; ergo, il tradimento non esiste! Il disgraziato ha poi patito sulla pelle la fantastica precarietà della sua logica, che però allude a un’imbarazzante questione proprio nella traduzione.
A quale condizione posso sapere mentre traduco – questo il punto – che sto tradendo la lingua di partenza? Come posso insomma essere infedele se non ho di fronte alla mente l’intero significato che devo fedelmente trasportare? Devo pur capire che il significato in questione nella lingua d’arrivo è travisato, perciò coglierlo immacolato nella lingua di partenza. Ma se lo colgo in toto, per quale ragione non riesco poi a tradurlo? Forse perché non esiste un termine corrispondente? Se il significato è un’entità trasparente ed evidente che la mente afferra e su cui appiccica un suono e un segno convenzionale, perché mai non dovrei trovare nella mia lingua un segno del genere, una veste arbitrariamente idonea? Se d’altro canto il significato da tradurre non lo afferro (o non è addirittura afferrabile), come posso rendermi conto di tradire? Dell’eventuale travisamento se ne potrà certamente accorgere un altro traduttore, migliore di me. La conseguenza è sempre e comunque che una perfetta fedeltà mentale rimane la condizione del tradurre. Anzi no! Neppure questa è la conseguenza. Una fedeltà che non ammetta violazioni non è neppure fedeltà: mancando la possibilità di errare, in amore come nel tradurre, manca anche il risultato!
Una conclusione del genere nasce nelle aule di filosofia, e in una certa idea che in queste ci si fa del significato, non certo nelle discussioni fra traduttori, nella ricerca ossessiva della versione migliore, nella gelosia con cui, quando si crede di aver afferrato la perla traduttiva, si attende la versione a stampa senza comunicarla a nessuno. Quale sia questa idea del significato, da dove nasca e che problemi generi, son tutte questioni che in questa sede lasciamo ai filosofi.
La metafora del suono o segno grafico che, come un vestito, viene convenzionalmente attaccato al significato genera un problema notoriamente messo in risalto da W.V.O. Quine, quello della strutturale “indeterminatezza della traduzione”. Ridotto all’osso si tratta di quanto segue. S’immagini un antropologo che entra in contatto con gli esponenti di una tribù di cui non conosce la lingua. L’antropologo non accede direttamente ai significati mentali, questi sono accessibili solo in prima persona, potendo solo osservare i suoni e segni convenzionali che convenzionalmente li esprimono. Ebbene, Quine cerca di mostrare come qualsiasi comportamento esteriore dei soggetti che osserva, a cominciare dal loro comportamento verbale, sia traducibile con frasi fra loro incompatibili. Le evidenze a disposizione per la traduzione lasciano questa inevitabilmente indeterminata. Del resto come accedere al significato, se questo è murato dietro alle sue convenzionali vesti fisiche? Il successivo passaggio di Quine è quello di far capire che – stando così le cose – tale indeterminatezza si estende alla stessa lingua dell’antropologo, mettendo in discussione il punto di partenza dell’esperimento: io stesso posso mettere in dubbio, e per le stesse ragioni, il significato dei parlanti della mia lingua, quindi del linguaggio che credevo di dominare. Sembra rimanga aperta solo la possibilità dell’accesso ai miei significati per ispezione interna, in prima persona, ma se i significati mentali fossero noti solo e soltanto per una sorta di autocoscienza interna, all’interno di un teatro mentale di cui sarei l’unico spettatore, a) le conseguenze sarebbero quelle del solipsismo (io solo so di avere mente e significati) e dei suoi paradossi; b) l’osservazione interna di entità mentali significanti è un mito, nessuno ne ha esperienza. La conclusione di Quine, da buon naturalista, è che “significati mentali” non esistono e che anche il linguaggio, come la natura, è composto esclusivamente da successioni di enti fisici causalmente connessi. Per confutare l’esperimento di Quine, che ritengo porti a conseguenze tanto inappetibili quanto quelle del solipsismo, occorrerebbe mostrare che il vestito linguistico, nelle diverse lingue naturali, rivela direttamente le caratteristiche dei corpi che avvolge come, e molto più, dei vestiti che avvolgono i corpi umani. Come detto abbandoniamo in questa sede gli arzigogoli dei filosofi, pur rilevando che l’argomento di Quine ha avuto importanti conseguenze nella filosofia contemporanea e che vari e complessi ne sono gli assunti. Fidiamoci del problema di partenza del traduttore, che è poi il dato osservato anche dagli antropologi: il problema è quello di rendere al meglio significati manifesti, non di tra-durre, di trasportare da una lingua ad un’altra, fuochi fatui mentali misteriosamente connessi a suoni e a segni.
Qui cerchiamo di capire in che contesto, a quali condizioni, nasce la percezione della “parziale” intraducibilità delle parole, e delle frasi, e la conseguente percezione del tradimento; di un tradimento sui generis, a volte inevitabile e senza colpa, che genera inadeguatezza ma non rimorsi. Penso fra l’altro che qualche indicazione a riguardo offra anche spunti per discutere la questione astratta trattata nelle aule di filosofia.
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Vorrei dare tre indicazioni generali e progressive, assai sintetiche. La prima, A, riguarda termini che si presume falsamente non possano essere tradotti; si tratta in realtà di errori, a volte generati da pasticci concettuali della lingua di partenza, e che quindi non chiamano in campo alcun tradimento consapevole. La seconda, B, ha a che fare con difficoltà concernenti lo stile, e qui cominciano vere e proprie difficoltà che a volte riguardano, non sempre, l’aspetto semantico delle parole. La terza, C, è quella in cui un parziale tradimento diventa inevitabile. Un aspetto di B si riversa anche in C, cosa che dovrebbe sottolineare come la grande difficoltà della traduzione – ovviamente sempre in generale – riguarda la letteratura più che la saggistica. Gli esempi portati sono a dir poco scarsi, e può ben essere che le mie osservazioni appaiano discutibili. Quanto interessa, di là dalla correttezza degli esempi, è il tipo di difficoltà che questi rivelano.
- A) Gli esempi sono soprattutto presi dalle scienze umane e dalla filosofia, soprattutto nelle traduzioni dal tedesco e dall’inglese.
Il primo di questi riguarda il verbo tedesco erleben e le sue aggettivazioni e nominalizzazioni (ad esempio il sostantivo Erlebnis). Il tedesco oltre al verbo leben, che significa vivere, possiede anche il verbo erleben, formato appunto da leben e dal prefisso er-, che spesso indica la “riuscita”, la “soddisfazione” di quanto espresso dal verbo base (blicken, ad esempio, vuol dire guardare, erblicken scorgere). Ebbene, nella traduzione dei grandi testi della tradizione fenomenologica tedesca, in particolare nelle traduzioni delle opere di Edmund Husserl, è sembrato che erleben non avesse un corrispettivo in italiano, tanto da lasciarlo a volte non tradotto in tedesco. Quasi che solo le parole italiane che gli girano intorno permettessero al lettore di suggerire un concetto che la mente italiana non possiede. Se leben è vivere, cosa mai significherà erleben, una vita riuscita? In realtà il busillis è piuttosto semplice da sciogliere. In italiano posso sia dire “ho vissuto bene per molti anni” sia “ho vissuto momenti felici”. Nel secondo caso, i “momenti felici” sono quello che un tempo si chiamava “complemento dell’oggetto interno”: un sottoinsieme dell’insieme costituito dal vivere. I momenti vissuti non sono cioè qualcosa di diverso dal vivere, laddove, ad esempio, l’oggetto del mangiare, oggetto esterno, è fortunatamente un’entità ben distinta dal mangiare. Mentre quindi in italiano abbiamo sempre uno stesso verbo, in tedesco ne abbiamo due, con erleben che viene utilizzato per esprimere appunto oggetti interni. Ora, al sospetto che l’erleben tedesco avesse in sé chissà quali mantra semantici si è aggiunta, nel tradurre Husserl, una difficoltà dovuta ai contenuti espressi dal filosofo tedesco. Husserl afferma infatti che a essere erlebt (quindi per noi vissuti) sono ad esempio Ein Rot, ein Blau ecc., vale a dire un rosso, un blu e qui, e in molti casi analoghi, il traduttore ha tentennato, perché dire in italiano che “si vive un rosso o un blu”, sembra avere poco senso. Sembra piuttosto si possa avere esperienza di un rosso o di un blu, dove il verbo “esperire” non regge appunto “oggetti interni”: ciò che viene esperito non è un sottoinsieme dell’esperienza. Così, si è pensato di inserire nella traduzione di erleben sia la parola “vivere”, e allo stesso tempo, per rendere la frase sensata quando vengono erlebt entità come il rosso o il blu, di aggiungere “esperire”, che sopporta oggetti esterni. L’ircocervo che ne è venuto è stato “esperire vivente” (quasi se ne desse uno morto!) per il verbo, ed “esperienza vissuta” per il sostantivo Erlebnis. I dati fenomenologici husserliani, in italiano, sono quindi a un tempo, momenti del vivere (parti d’esperienza) e oggetti di cui si ha esperienza. Se ci si fosse limitati a tradurre alla lettera erleben con vivere, il lettore italiano avrebbe compreso tutto quello che Husserl vuole dire. Magari, come credo, anche le difficoltà della sua proposta.
Ancora due rapidi esempi. Il primo rovescerebbe la situazione a vantaggio della nostra lingua. Molti hanno pensato, e alcuni pensano ancora, che la lingua inglese manchi di una distinzione fondamentale in ambito conoscitivo. Alla coppia “conoscere/sapere”, presente anche in tedesco, in francese ecc., corrisponderebbe in inglese il solo verbo “to know”! Qui sarebbe la tradizione filosofica inglese a rivelare deficit cognitivi. Ma la differenza fra “sapere” e “conoscere” è semplicemente la differenza fra un verbo che regge una completiva (“sapere che …”) e uno che regge un complemento oggetto (“conoscere x”) e l’inglese, ovviamente, distingue le due strutture nel far seguire a “to know” un complemento oggetto (“I know it”) oppure una completiva (“I know that…”). Se c’è una differenza fra le due strutture, questa è compiutamente espressa anche in inglese.
Infine – spesso si sospetta – tutta la tradizione di filosofia morale italiana sembra mancare del “dovere morale”. Dove in tedesco si distingue müssen da sollen, in italiano abbiamo un solo dovere (in inglese il pacchetto dei modali è ancora più pingue). Così, si è pensato di tradurre müssen con dovere, e sollen con dover essere. Ma se i tedeschi hanno due parole dove noi ne abbiamo una, perché mai dover essere traduce sein sollen e non sein müssen (dove sein sta appunto per essere)? In dover essere già si dovrebbe aver capito che il dover è un sollen e non un müssen! In realtà il presunto “dovere morale”, quello dell’obbligo, non è affatto assente nella nostra lingua (magari è più assente nei comportamenti). Uno dei significati base di sollen in tedesco è quello di riportare in “discorso indiretto” gli imperativi di un “discorso diretto”. Se dico ad Ambrogio “per favore alzati!”, riportando il giorno dopo l’ingiunzione, potrò dire che avevo detto ad Ambrogio che “doveva alzarsi”, e qui in tedesco uso appunto sollen e non müssen. Le traduzioni dei testi kantiani di filosofia morale sono zeppi di dover essere. Sarebbe stato molto più opportuno, senza supporre l’esistenza di un puro “dovere morale”, usare semplicemente dovere: quando questo risponde a comandi, leggi, precetti (guarda caso gli imperativi kantiani!) è ben chiaro dal contesto.
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- B) Gli esempi potrebbero continuare, e forse quelli fatti ad alcuni parranno anche dubbi. Ma quanto vorrebbero esemplificare è l’idea per cui l’infedeltà traduttiva non si fonda sull’esistenza di significati che una lingua possiede e che misteriosamente il traduttore afferra con la mente, ma di cui non ha l’equivalente nella lingua d’arrivo, nel nostro caso in italiano. Una credenza del genere si basa su una concezione (filosofica) distorta della natura del significato.
La cosa cambia se intervengono problemi di stile. Come accennato in tal caso il problema non nasce (se non per l’eleganza della scrittura) se ha luogo nell’ambito “scientifico”, mentre le cose mutano o possono mutare nell’ambiente letterario – particolarmente nella poesia. Cominciamo con un esempio tratto dalla sociologia.
Nelle opere di Niklas Luhmann, il maggior sociologo tedesco del secolo scorso, appare di continuo il verbo ausdifferenzieren e le rispettive voci nominali e aggettivali. Differenzieren è ovviamente in italiano differenziare, ma il problema dei suoi traduttori – le traduzioni di Luhmann sono davvero “ca****amari” (ringrazio mia moglie per il suggerimento stilistico) – è il prefisso aus, tanto misterioso da far pensare ai suoi traduttori di cassarlo, lasciando differenziare, differenziazione ecc., (parole, evidentemente, con le quali il lettore italiano non deve fare troppi sforzi). Ora il senso di ausdifferenzieren è in italiano il seguente mostro: “autonomizzarsi attraverso differenziazione”. L’idea è quella per cui, secondo la “teoria dei sistemi” luhmanniana, la religione, ad esempio, è un sistema che si genera attraverso la progressiva differenziazione della società, di cui risolve un certo tipo di problemi. Arrivata a un certo grado di complessità, però, la religione si trasforma in un sistema autonomo che concepisce la stessa società come una delle sue differenziazioni. Poco importa qui che mi sia spiegato. È chiaro che non si può sostituire a ogni occorrenza di ausdifferenzieren e delle voci nominali e aggettivali l’orrendo autonomizzarsi attraverso …: i testi di Luhmann sarebbero diventati ancora più indigesti e illeggibili di quanto già non siano. Ma si poteva spiegare il significato del termine in nota e poi aggiungere un asterisco alle sue occorrenze, oppure, sempre dopo averlo chiarito, inventarsi un neologismo. Certamente lo stile ne avrebbe risentito, ma il complesso pensiero del tedesco sarebbe stato riportato paro paro in italiano.
Ci si immagini poi una donna seduta davanti a un ferro da stiro inattivo, e il suo uomo che pensa: “non mi stira!”. Se il mi è interpretato come dativo di vantaggio, ci troviamo di fronte ad un bieco maschilista, la signora non stira per lui, a suo vantaggio! Ma se il dativo è “etico” (spesso usato da scrittori toscani, da Palazzeschi fra gli altri), che l’italiano conserva dal latino e il latino dal greco, quel mi indica partecipazione emotiva e preoccupazione; il maschio maschilista tramuta così in un dolce e premuroso compagno. In inglese o in tedesco, che non hanno il dativo etico, occorrerebbe spiegare di cosa si tratta, ma nella traduzione la preoccupazione partecipata del dolce omino va ovviamente persa. Oppure si pensi al verbo inglese to rubberneck, usato fra l’altro per indicare gli sventurati che si fermano nella corsia opposta a contemplare un incidente. Come rendere in italiano l’immagine grottesca e da cartone animato di un collo di gomma che si allunga con cinica avidità dalla parte opposta? In questi e in miriadi di casi analoghi la mancata resa dell’immagine e dei sentimenti, per quanto possa essere del tutto compresa, toglie alla traduzione elementi che si fondono con il significato. Anche le carenze di una lingua possono inoltre dare i loro frutti. La coscienza di Zeno di Svevo è un titolo intraducibile in inglese e tedesco, lingue che possiedono termini distinti per la coscienza “cognitiva” e quella “morale”. Quella di Zeno è tutte e due in uno, e la sintesi va persa.
Chiaramente il gioco di stile, suoni e sensazioni è l’anima della poesia. Ne “il divino del pian silenzio verde” de Il bove di Carducci, giocano fra loro almeno quattro o cinque figure retoriche (anastrofe, iperbato, ipallage ecc.) con l’ultima, la “sinestesia”, che dà il tono di fondo al tutto. Nella sinestesia – una figura retorica ma anche un’alterazione del sistema percettivo– una certa proprietà viene attribuita a qualità sensibili incongruenti, così un colore può diventare croccante e una sensazione tattile zuccherina. Nel verso di Carducci verde, che appartiene a pian, segue il silenzio, creando un’atmosfera di pace intima, con un colore che accompagna l’assorta assenza di rumori. Non conosco traduzioni del verso, ma posso ben immaginare che molto dell’originale, suoni, metafore e sintassi, sostanza del verso, vada perso. Lascio infine al lettore l’abracadabra che potrebbe rendere in italiano il salto fra dentali e fricali del famoso incipit della Lolita di Nabokov: “Lolita […]. My sin, my soul […]: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.”
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- C) I problemi che abbiamo detto “di stile” creano quindi scarsi grattacapi allorché si tratta di rendere concetti astratti o teorie, dove è possibile parafrasare il vocabolo che manca. Cominciano a crearli quando ne va della resa dell’espressività della lingua di partenza. Esplodono poi in vere e proprie infedeltà in letteratura, e soprattutto nella poesia, dove l’espressione si fonde con il significato. Qui al tradimento, nel grande traduttore, si associa inevitabilmente la creatività. Non è un caso che le traduzioni di poeti fatte da poeti, anche quando il significato è travisato (vedi la famosa traduzione di Quasimodo dei Lirici greci), mantengono alta la resa lirica.
Ma è possibile comprendere uno o più significati e tradirli traducendo a prescindere da questioni di stile, di suono, di portata metaforica, come avviene nella poesia? È possibile, voglio dire, senza ricadere nell’idea per cui, se comprendo il significato nella lingua di partenza, devo poi poterlo rendere in quella di arrivo? E senza dover ricadere nell’idea balzana per cui comprendo uno spiritello mentale che non ha –chissà perché – uno suono e segno corrispettivo che lo veste nella traduzione?
Il fatto è che le parole acquistano il loro volume semantico, gli aspetti del loro significato, nei vari contesti d’uso in cui vengono applicate. Come i loro fruitori, le parole vivono una vita complessa e mutevole che poi si tramanda di generazione in generazione e che, in molti casi, scompare nel passato. Se le entità oggettive cui mira la scienza, ogni scienza, naturale o umana che sia, sono, almeno nelle intenzioni, termine di riferimento di verità che non mutano e non variano a seconda delle latitudini, i sentimenti, le abitudini, i giudizi di valore, il riconoscimento sociale, le aspettative, soprattutto la forza illocutiva (gli effetti che vogliamo producano) che le parole esprimono variano di cultura in cultura e, all’interno di queste, variano con il tempo. In questo senso le parole vivono all’interno di un ambiente e, sul loro uso in una specifica circostanza, gravano gli ulteriori usi in cui vengono espresse e scambiate per comunicare. Nel fardello di usi che la parola possiede in ogni singolo utilizzo, nelle diverse situazioni, risuona, per così dire, la sua storia, fatta appunto dalle molteplici e differenziate occasioni in cui è pronunciata o scritta. Questa multiforme vita, penso, l’accompagna in ogni singola occorrenza. To disturb in italiano corrisponde certamente al nostro disturbare, ma in inglese viene usato anche per esprimere il nostro turbare, una persona deeply disturbed è una persona profondamente turbata (non mentalmente disturbata!), e il verbo inglese può essere anche usato nel significato di muovere o spostare, ad esempio un corpo. Non voglio affatto sostenere che, nel disturbare una riunione, alla mente del parlante inglese si affacci l’idea del turbamento o dello spostamento di un oggetto: I don’t want to disturb him significa non voglio disturbarlo. Quanto intendo dire è che la parola, almeno in alcuni casi, risente dell’intero ambiente in cui viene usata, come il nostro passato pesa sulle nostre azioni. Ed è questo ambiente, quantomeno gran parte dei suoi echi, ad andare perso nella traduzione.
Si potrebbe obiettare, pur accettando la pregnanza semantica di un termine nel senso detto, che qualsiasi esempio io utilizzi per chiarire la cosa, riportando fra l’altro le indicazioni di un buon vocabolario, sto pur sempre spiegando in italiano il significato del termine, quindi ne riporto perfettamente, indicando i contesti d’uso e utilizzando parafrasi, il significato. Il fatto è che anche le parole che servono a definire e richiamare l’uso del termine alieno vivono di un proprio ambiente, diverso da quello straniero che intendono illustrare. Se è così, qualcosa va perso al di là degli sforzi, e quanto va perso è parte integrante di un’opera letteraria. Il modo migliore per comprendere tale situazione è quello di richiamare alla mente la nostra capacità, più o meno marcata a seconda delle sensibilità, di individuare, da una frase detta in una certa occasione, il carattere di un individuo che parla la nostra lingua, di ricavare da una frase il modo in cui questo si dispone di fronte agli altri, persino i suoi valori e preferenze, e le emozioni che li accompagnano. Dietro questa capacità sta una miriade di convenzioni che intuitivamente cogliamo perché ci appartengono in prima persona, perché siamo abituati a vivere la parola in situazioni analoghe. A fronte di tale capacità si pensi alla difficoltà di cogliere con altrettanta sicurezza il registro linguistico di chi parla una lingua diversa dalla nostra, che pure mediamente dominiamo. Se ora supponiamo un traduttore che domini perfettamente entrambe le lingue nei rispettivi contesti d’uso, magari perché ha vissuto a lungo in entrambi i paesi, possiamo immaginare la perfetta comprensione di significati cui si accompagna in certa misura l’impossibilità di tradurli, di riversare un ambiente storico e il suo potenziale espressivo in un ambiente diverso. La difficoltà diventa fondamentale, per ripeterlo, se si tratta di un testo letterario che della propria cultura è volta a volta la più intensa espressione. Un traduttore ideale che domini perfettamente la vita di due culture dovrà in parte riprodurre l’ambiente semantico che traduce, finché la lingua d’arrivo lo consente, in parte ricreare quanto va perso, mantenendo quanto più possibile analogie e aspetti comuni. C’è quindi una misura per cui il traduttore entra da attore nella produzione letteraria.
Per quanto mi riguarda, lontanissimo da una competenza del genere (infatti traduco a volte testi di saggistica), il piacere di leggere testi letterari in una lingua diversa dalla mia è anche il piacere di entrare in un mondo da esplorare e immaginare, cercando di afferrare almeno alcune risonanze dei tipi di vita che non ho vissuto.
*Presidente dell’Istituto di Politica
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