di Maurizio Serio
L’agenda del governo gialloverde presenta tra le sue priorità il problema del lavoro e quello dell’immigrazione.
È impossibile negare che la gran parte di messaggi, invero spesso contraddittori, che gli esponenti di questa maggioranza fanno arrivare all’opinione pubblica si situino lungo un asse comunicativo che presenta ai suoi poli queste due issues. Tuttavia, la loro correlazione non è immediatamente logica, ma situazionale ed estemporanea. La retorica populista impone di affrontare gli input provenienti dalla pancia del paese con slogan e dichiarazioni istantanei,
di Maurizio Serio

L’agenda del governo gialloverde presenta tra le sue priorità il problema del lavoro e quello dell’immigrazione.

È impossibile negare che la gran parte di messaggi, invero spesso contraddittori, che gli esponenti di questa maggioranza fanno arrivare all’opinione pubblica si situino lungo un asse comunicativo che presenta ai suoi poli queste due issues. Tuttavia, la loro correlazione non è immediatamente logica, ma situazionale ed estemporanea. La retorica populista impone di affrontare gli input provenienti dalla pancia del paese con slogan e dichiarazioni istantanei, quasi a voler sfuggire dal vicolo cieco in cui i grandi problemi del nostro tempo inevitabilmente ci spingono – a meno di essere adeguatamente attrezzati, sul piano morale, intellettuale e politico, per trovare delle soluzioni percorribili. Ma non è certo il caso di questa maggioranza (né invero delle ultime che l’hanno preceduta).

Il punto è che, sotto tutti questi profili, non sono certo sostenibili né la pretesa di risolvere il problema del lavoro arginando quello dell’immigrazione (quasi che a quest’ultimo potesse ridursi il primo!), né quella, in fondo speculare, di reagire alle sfide che l’immigrazione presenta quotidianamente agitando il feticcio della cittadinanza assistenzialista, come ultimo baluardo del nostro welfare impossibile di fronte agli scherzi amari della globalizzazione.
Tutto ciò, per il semplice motivo che ormai queste sono sfide semplicemente fuori dalla portata di una (angusta) politica nazionale di stampo sovranista.

Il paradosso e l’impasse della politica odierna si nascondono proprio nelle pieghe di questo tipo di retorica, che annuncia di voler risolvere problemi più grandi di sé, denuncia con facilità chiunque tenti di smascherarne i trucchi, e rinuncia, invece, a mettere mano a quel poco che potrebbe aggiustare. Fra queste cose, e non fra le più marginali, c’è senz’altro la piena attuazione dell’art. 49 della Costituzione. Democrazia interna dei partiti significa, diciamolo sinceramente, piena partecipazione popolare, trasparenza, speranza fondata di cambiamento. Altro che adunate oceaniche attorno al leader di turno; altro che creazione alchemica di consenso sulla rete, eterodiretto da chi possiede le chiavi della stanza del server.

Pertanto, se vogliamo che si porti avanti in maniera sistematica, continuativa e professionale una politica del lavoro adeguata alle aspettative ansiose e ai prematuri rimpianti delle giovani generazioni, come di quelle più anziane, chiediamo che i partiti scelgano di occuparsi, in primo luogo, di quello cui possono metter mano senza timori di interferenze o limiti esogeni, senza alibi né pretesti: riformare se stessi, aprire il proprio spazio interno di discussione e indirizzo alle istanze sociali che nascono anche negli angoli più disperati delle nostre comunità, arrendersi al fatto che il “popolo” non è tanto il target di esperimenti di potere calati dall’alto quanto una forza morale che va sostenuta e orientata con compassione, fiducia,  pazienza.

Ne scopriranno delle belle…

 

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