di Alessandro Campi
Non riuscendo la nostra classe politica a cambiare il sistema istituzionale e le regole del gioco che lo governano, avendo al tempo stesso perso la fiducia dei cittadini, in Italia da vent’anni a questa parte ci si limita a cambiare le sigle e i simboli dei partiti (e a inventarne di nuovi, spesso ad uso personale o di clan). Avendo cura di lasciare i leader al loro posto, anche quando sconfitti,
di Alessandro Campi

Non riuscendo la nostra classe politica a cambiare il sistema istituzionale e le regole del gioco che lo governano, avendo al tempo stesso perso la fiducia dei cittadini, in Italia da vent’anni a questa parte ci si limita a cambiare le sigle e i simboli dei partiti (e a inventarne di nuovi, spesso ad uso personale o di clan). Avendo cura di lasciare i leader al loro posto, anche quando sconfitti, logorati o palesemente inadatti, e nella speranza che gli elettori prendano per nuovo ciò che invece è vecchio o riciclato (idee e programmi inclusi). Ma non sempre il trucco o la ricerca della novità ad ogni costo funziona.

Alleanza nazionale parve, all’alba della Seconda Repubblica, il laboratorio di una nuova destra europea, metà conservatrice metà liberale, finalmente liberatasi dai fantasmi del nostalgismo mussoliniano. Ma poi si scoprì che era solo il contenitore nel quale s’era riciclata tutta la vecchia nomenclatura missina e post-fascista, incapace di aprire i propri ranghi a energie esterne: la stessa che – dopo lotte interne, diaspore e sconfitte elettorali – s’è oggi asserragliata dietro il marchio Fratelli d’Italia.

Il Popolo della Libertà parve ad un certo punto la felice trovata d’un Berlusconi che, dopo aver creato il centrodestra come formula e alleanza politica, s’era messo in testa (meritoriamente) di dare ai moderati italiani una casa comune stabile e duratura. Ma venne fuori che quel nuovo partito era solo una Forza Italia allargata. Aveva uno Statuto informale con un solo articolo: comanda sempre e soltanto il Cavaliere. E infatti s’è subito sfasciato, tra insulti e anatemi.

Complicate da seguire ma istruttive sono state in tutti questi anni le metamorfosi formali e d’etichetta della sinistra italiana. Quella radicale – nella parabola paradossale dal garantista Fausto Bertinotti all’uomo di legge Pietro Grasso, passando per il movimentismo libertario di Nicky Vendola – si è chiamata prima Rifondazione comunista, poi Sinistra arcobaleno, poi SEL-Sinistra ecologia e libertà, infine Liberi e uguali. Ma gli elettori, vuoi le scissioni che hanno contribuito a frantumare e confondere l’offerta nelle urne, vuoi i personalismi mascherati da dissensi sulla linea da seguire, non hanno fatto che diminuire da una consultazione all’altra.

Quella riformista (insieme post-comunista e post-democristiana) è stata anch’essa, tra vittorie che sembrano un lontano ricordo e sconfitte di cui nessuno si è mai attribuito la responsabilità, un susseguirsi snervante di sigle sempre diverse: prima affiancate (Pds e Partito popolare, Democratici di sinistra e Margherita), poi alleate in forma di cartello (la stagione dell’Ulivo prodiano), infine fuse in un solo partito (il Pd) di cui non pochi, dopo la sconfitta di Renzi alle elezioni del marzo 2018, vanno ora chiedendo la chiusura ovvero la rinascita con un altro nome e, sperabilmente, con un altro progetto.

Lasciando da parte lo spezzatino di segni grafici, simboli elettorali e acronimi con cui singoli uomini politici o piccole consorterie hanno cercato di mantenersi politicamente in vita in questi anni, anche in questo caso cambiando spesso etichetta e logo secondo la convenienza, la frenesia da cambiamento d’immagine e nome adesso sembra investire la Lega: il partito più giovane quando nacque la Seconda repubblica, ma poi divenuto il più vecchio, mano a mano che gli altri sparivano o cambiavano opportunisticamente ragione sociale.

Da Lega Nord (per l’indipendenza della Padania) il partito fondato da Bossi alle ultime elezioni era già divenuto Lega per Salvini premier: il cognome del nuovo capo-leader al posto dello storico richiamo territoriale. Ma adesso, come si sa, è lo stesso brand Lega che potrebbe sparire del tutto: tutto dipende da una imminente sentenza della magistratura. Ma forse, corso della giustizia a parte, era una strada già tracciata quella verso la nascita di un nuovo soggetto politico, se è vero che l’ambizione nemmeno tanto segreta di Salvini, ben sostenuta dai sondaggi, sarebbe di creare un grande partito di destra – nazionalista-identitario sul lato ideologico, tradizionalista sul piano dei valori, su posizioni radicali in materia di immigrazione e sicurezza, tendenzialmente anti-europeo – nel quale far confluire la totalità dell’elettorato legista, ciò che resta del mondo che fu missino e il grosso del bacino berlusconiano sempre più deluso e allo sbando.

Nuovo contenitore, nuovo nome (e nuovo simbolo). L’ennesimo nel panorama politico nazionale, sul quale già si avanzano diverse ipotesi: Noi, Lega nazionale o Lega Italia (giudici permettendo, visto che potrebbe esserci un problema di continuità legale a fronte dei debiti da saldare con lo Stato), Prima gli italiani, Popolo italiano, Salvini premier…

Ma brand o simbolo a parte sarebbe un vero cambiamento o l’ennesimo maquillage grafico-propagandistico? Nascerebbe un nuovo partito in senso proprio (come la Lega è stata per anni, con militanti, sedi, dirigenti, insediamenti territoriali, scuole di formazione: tutte cose che la post-modernità politica sta dolorosamente liquidando) o solo una nuova sigla elettorale al servizio del leader emergente di turno, protagonista non a caso di una svolta comunicativa che sembra segnare – dopo le stagioni di Berlusconi e Renzi – un passaggio ulteriore sulla via della completa personalizzazione-mediatizzazione della lotta politica in Italia?

Ma poi basta modificare il nome e il logo, inventarsi qualche parola d’ordine efficace, per diventare più attrattivo (e credibile) agli occhi degli elettori? Non è uno sbaglio pensare – soprattutto alla luce della recente esperienza italiana – che la solidità del contenuto, anche nell’era della politica dominata dalla virtualità e pervasività della Rete, dal rapporto diretto a colpi di tweet tra leader e popolo, dalla prevalenza sociale dell’effimero e dalla cultura della gratificazione immediata, possa essere decisa dall’attrattività formale del contenitore? Sarà un caso, ma nelle democrazie contemporanee più i leader di partito si affidano alla comunicazione, all’immagine e alle trovate pubblicitarie più le loro carriere politiche passano con rapidità straordinaria dall’anonimato alla vittoria e dal successo alla sconfitta. Evidentemente non c’è restyling o espediente mediatico tanto efficace da coprire, sul medio periodo, un vuoto di programmi o da compensare una politica che per vincere pensa di potersi affidare alla forza persuasiva di una sigla (per quanto accattivante e ben confezionata) o, peggio ancora, a idee confuse, inadeguate e ossessivamente ripetute. Salvini avvisato, mezzo salvato.

* Articolo apparso sul ‘Messaggero’ del 4 settembre 2018.

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