di Alessandro Campi
Un bel paradosso: il governo del cambiamento che diventa ogni giorno che passa il governo dell’immobilismo e dei veti incrociati. Dal fare al faremo (forse). Dalla strategia dell’innovazione (su ogni possibile fronte stando al famoso contratto: pensioni, occupazione giovanile, infrastrutture, politiche per l’ambiente e il territorio, conflitto di interessi, tasse, giustizia, diritto di famiglia, scuola, ecc.) alla tattica della dilazione, avendo come orizzonte politico-temporale le elezioni europee (ed amministrative) del prossimo anno. Dopo, si vedrà.
L’impressione, a meno di un improvviso cambio di marcia auspicato ormai anche da coloro che il governo giallo-verde l’hanno voluto e salutato con favore, è che esso si sia come impantanato a causa delle sue stesse (probabilmente insanabili) contraddizioni: due forze alleate ma con culture politiche e visioni ideologiche troppe divergenti; elettorati di riferimento e basi sociali altrettanto diversi; programmi, obiettivi e progetti di riforma che ognuno coltiva in autonomia, senza una visione condivisa del futuro dell’Italia, e che sommandosi rischiano di far saltare l’equilibrio dei conti pubblici.
C’è poi un tratto competitivo tra i due partiti (e i rispettivi leader) che nelle ultime settimane è diventato più forte della volontà di leale cooperazione dichiarata nero su bianco al momento di far nascere l’esecutivo. Anche in questo caso le divergenze crescenti nascono da differenze originarie. La Lega è un partito con una solida cultura di governo, al centro come in periferia, incline dunque al pragmatismo e quando serve al compromesso. Il M5S non riesce invece ad emanciparsi dalla sua visione della politica come contro-potere, denuncia e controllo e da un’intransigenza dottrinaria, da una retorica anti-istituzionale che sono poco compatibili con l’arte del governo.
Quanto al modo con cui i due partiti sono guidati, Salvini ha la piena disponibilità della Lega e non deve temere rivali interni: detta la linea, fissa gli obiettivi e tutti gli vanno dietro, secondo gerarchie definite. Di Maio ha invece due fronti interni costantemente aperti: il vertice supremo (Casaleggio e Grillo) cui rendere conto di ogni scelta e la minoranza movimentista che lo incalza da sinistra richiamandolo alla purezza originaria del movimento. Da qui il continuo gioco al rialzo propagandistico cui Di Maio, per sfuggire l’accusa di essere troppo cedevole con l’alleato e di esseri imborghesito, è costretto ormai da tempo: dai tira e molla sul reddito di cittadinanza (impossibile da realizzare secondo le promesse elettorali ma da attuare ad ogni costo) agli ondeggiamenti sulle grandi opere (che forse si faranno, almeno in parte, ma non perché siano minimamente considerate necessarie al Paese dai grillini, ma con l’argomento puerile che bisogna evitare di pagare penali e risarcimenti).
Nonostante questi problemi, acuiti dalla difficoltà con cui sta procedendo la trattativa con l’Europa sulla prossima legge di bilancio, è difficile però che questo governo nell’immediato entri in crisi. Per la semplice ragione che la sua caduta, a conti fatti, non conviene a nessuno.
Certamente non è nell’interesse dei due contraenti. E’ vero che la Lega ha, sondaggi alla mano, il vento in poppa, ma dei consensi virtuali non conviene fidarsi mai. Salvini del resto lo sa bene: molti di coloro che oggi gli esprimono il proprio sostegno non lo fanno perché vogliono elezioni anticipate o perché ossessionati come lui dal tema della sicurezza e degli immigrati, ma perché lo considerano un interlocutore al governo più affidabile e razionale di Di Maio (su chi pensate facciano affidamento politico i trentamila sfilati a Torino per dire “Si” alla Tav?). Quanto al M5S vale il ragionamento contrario: andare alle urne senza poter brandire almeno il simbolo di una vittoria eclatante produrrebbe una fuga di consensi maggiore di quella che già oggi registrano i sondaggisti. Senza considerare il personale destino dello stesso Di Maio, sul quale incombe, Statuto alla mano, lo spettro della non ricandidabilità a causa dei due mandati parlamentari già svolti.
Nonostante l’intransigenza dimostrata nelle dichiarazioni e negli incontri ufficiali, anche all’Unione europea conviene tenersi questo governo, trovando con esso per quanto possibile un accordo sulle parti della manovra da correggere. L’effetto contagio di una crisi finanziaria in Italia (sebbene qualche irresponsabile l’abbia auspicata come strumento per dare una lezione ai populisti e a chi li vota) potrebbe rivelarsi incontrollabile e persino mortale per l’intera Unione. Al tempo stesso non conviene dimostrarsi troppo punitivi e ostili nei confronti di un governo a guida populista: in vista del voto europeo gli si darebbe infatti un argomento propagandistico formidabile. Cosa c’è di meglio, per partiti come la Lega e il M5S, che descrivere Bruxelles come un covo di burocrati ottusi che opera a danno del popolo?
Ma questo governo va bene alla fine anche a chi ufficialmente lo contrasta in Parlamento. Anzi, ciò che in questo momento gioca più a favore della stabilità dell’esecutivo in carica è proprio l’inesistenza di una qualunque alternativa ad esso. Le opposizioni sono politicamente deboli (come nel caso di Forza Italia, la cui unica ambizione sembra poter tornare appena possibile al vecchio centrodestra anche se ormai interamente egemonizzato da Salvini) ovvero profondamente divise al loro interno (sul Pd in vista del congresso incombe nuovamente lo spettro di una scissione e davvero non sin capisce di potrà guidarlo nel prossimo futuro). Come se non bastasse si tratta di opposizioni che non sembrano avere idee chiare su ciò che vogliono e soprattutto su ciò che intendono proporre al Paese per rendersi credibili.
E’ vero, per uscire da questa impasse si parla da tempo della possibilità che nasca un nuovo contenitore elettorale nel quale far confluire tutte le forze decise ad opporsi al duopolio leghista-grillino ai prossimi appuntamenti elettorali. Ma non si capisce al momento quale figura o personalità possa agire come federatore e deus ex machina di una simile aggregazione. Tantomeno si capisce quale coerenza politica e unità d’intenti possa avere un simile contenitore. Se si accusa di eccessiva eterogeneità il governo in carica risulta poco credibile opporgli un cartello che rischia di essere a sua volta un guazzabuglio di soggetti molto diversi.
Insomma, Lega e M5S, seppure tra litigi e riconciliazioni, un po’ per convinzione, molto per necessità, sono destinati a restare insieme ancora per un bel pezzo. Peccato solo che il prezzo della loro inazione, se dovesse proseguire l’attuale andazzo, finirà per ricadere non sui due partiti e chi li ha votati ma su un intero Paese, che avrebbe tanto bisogno (e voglia) di rimettersi in marcia ma proprio non ci riesce.
info@alessandrocampi.it
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Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 14 novembre 2018
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