di Alessandro Campi
Dopo l’Abruzzo, la Sardegna. A quanto si ricava dai primi exit poll diffusi ad urne appena chiuse (i risultati reali si conosceranno solo nella giornata di oggi, dal momento che lo scrutinio notturno pare implichi una fatica insopportabile per noi italiani) il copione si è ripetuto, secondo quelle che erano le previsioni degli analisti e le attese degli stessi partiti. La coalizione di centrodestra avrebbe ottenuto tra il 43-47% dei voti, quella di centro-sinistra tra il 27-31%, il M5S tra il 14-18%.
Ciò conferma che quando il vento soffia nessuna barriera può trattenerlo. Il vento, in questo caso, è quello del salvinismo, capace evidentemente di intestarsi ormai qualunque malessere sociale, reale o immaginario che sia: quello degli italiani impauriti dall’invasione degli immigrati clandestini o dalla violenza urbana (inesistente la prima, in calo da anni la seconda) come quello dei pastori sardi che si sentono sfruttati e malpagati. E che ancora ieri – come avevano minacciato – si sono fatti sentire assaltando a operazioni di voto ancora in corso un camion-cisterna dalle parti di Nuoro.
Le proteste per il prezzo del latte di pecora troppo basso, che per giorni hanno occupato la scena nazionale per le modalità eclatanti con cui si sono realizzate, sono state abilmente cavalcate dal leader leghista: dismesse le giubbe della polizia di stato, per solidarietà coi sardi arrabbiati ha prontamente indossato, durante i suoi viaggi nell’isola, una felpa col tradizionale simbolo dei quattro mori. Un mimetismo estetico-politico criticato dagli osservatori come indice di spregiudicatezza e di nichilismo (se si abbracciano tutte le cause è perché non si crede in niente), ma evidentemente gradito dagli elettori: persi i riferimenti ideologici e smarrita la fiducia nella politica questi ultimi ormai si accontentano di aderire emotivamente nemmeno più ad una persona in carne ed ossa, ma alla sua immagine sublimata o proiettata all’infinito.
In realtà, l’intero centrodestra ha investito su questo passaggio elettorale, come s’è visto con l’andirivieni dal continente dei leader delle tre principali formazioni: oltre Salvini, anche la Meloni e Berlusconi. Quest’ultimo con la Sardegna ha un legame antico, immobiliare-vacanziero oltre che politico, e su esso ha molto puntato per cercare di riequilibrare a suo favore i rapporti interni alla coalizione. Quando si conosceranno i voti ai singoli partiti capiremo se l’operazione ha funzionato, tenuto anche conto della inevitabile dispersione dei consensi che si potrebbe essere prodotta (anche a danno parziale della stessa Lega), dal momento che l’alleanza guidata da Christian Solinas – esponente del Partito Sardo d’Azione nel frattempo divenuto senatore leghista – comprendeva ben undici sigle, tra partitiche e civiche. Gli exit poll danno la Lega al 12-16% (nelle precedenti regionali del 2014 il simbolo del Carroccio nemmeno era presente, mentre alle politiche del 2018 ha ottenuto il 10,8%), Forza Italia al 6-10% e Fratelli d’Italia al 2-5%.
Ma per la legge elettorale sarda – un proporzionale con eventuale premio di maggioranza – non contano tanto i voti ai partiti e alle coalizioni, ma quelli ai candidati governatori. Chi ottiene più voti vince la presidenza, ma al tempo stesso trascina il proprio raggruppamento grazie al premio: 33 seggi su 60 totali se il candidato vincente avrà ottenuto tra il 25 e il 40% dei voti, ovvero 36 seggi su 60 se avrà superato la soglia del 40%.
Ecco allora l’importanza (e in parte anche la sorpresa) del “testa a testa” che gli exit poll sembrano profilare e che considerato il margine d’incertezza intorno al 3-4% che essi contengono potrebbe davvero dare luogo ad un risultato a sorpresa una volta completato lo scrutinio. Se Solinas ha una forbice tra il 37 e il 41%, Massimo Zedda, attuale sindaco di Cagliari e guida della coalizione di centrosinistra, ne ha una che oscilla tra il 36 e il 40%: un solo punto percentuale di distanza. Zedda – l’unico ancora in carica tra i sindaci “arancioni” eletti nel biennio 2011-12 – ha fatto molto meglio dei partiti che lo hanno appoggiato, che dovrebbero aver raccolto tra il 28 e il 32% dei voti. Ha dunque contato la sua personalità, apprezzata in tutta l’isola anche fuori dal campo della sinistra: è evidente che è stato votato in modo trasversale, anche da elettori di centrodestra, dai grillini scontenti e da chi, non votando nessun partito, ha invece votato solo per lui.
Anche in Sardegna, il fronte progressista ha tentato la strada della coalizione allargata (correvano otto diverse liste), con l’idea di pescare voti nella società civile e nelle frange della sinistra delusa dal Pd (ma c’erano anche altre sigle di sinistra con le quali fare i conti). È una formula che, come si è già visto in Abruzzo, se da un lato può fare guadagnare dei voti, dall’altro penalizza oggettivamente il Pd sul piano dei consensi (gli exit poll lo danno tra il 12,5 e il 16,5%), oltre a toglierli di centralità politica. In questa campagna elettorale sarda i suoi esponenti di punta praticamente non si sono visti: sicuramente perché impegnati nelle primarie per la segreteria nazionale, ma anche perché le possibilità di vittoria della sinistra sembrano ormai paradossalmente legate al superamento del Pd come sigla. Esattamente la soluzione alla quale si sta pensando in vista delle prossime europee e che pone naturalmente il problema di quale possa essere nel prossimo futuro il destino del Pd per come lo abbiamo conosciuto sinora. Lo aspetta una fase di profonda ristrutturazione organizzativa e programmatica, chiusa per sempre, come molti sostengono, la stagione del renzismo, o il prossimo segretario ne sarà il liquidatore, non essendoci ormai altra salvezza, per non fare la fine degli altri socialismi europei, che la sua confluenza in un contenitore diverso e più grande?
I primi dati diffusi sembrano infine confermare il calo precipitoso del M5S, che proprio in Sardegna aveva conosciuto una progressione tra le più spettacolari a livello nazionale: 29,7% alle politiche del 2013, 30,5% alle europee del 2014, 42,5% alle politiche del 2018. Gli exit poll danno un risultato inferiore al 20%: tra il 14-18%, col suo candidato Francesco Desogus che ha fatto ancora peggio (13-17%). Se confermato dallo spoglio finale, si tratterebbe di un tonfo che difficilmente può essere spiegato col solito argomento dello scarso radicamento dei grillini sul territorio. Anche perché l’aumentata affluenza al voto – non ancora ufficiale ma superiore al 52,2% delle regionali del 2014 (ma nel 2009 aveva votato il 67,5% dei sardi) – avrebbe dovuto aiutare proprio i grillini, il cui elettorato, per essere fluttuante, molto trasversale e d’opinione, è anche quello più difficile da mobilitare in chiave di militanza o appartenenza.
A questo punto c’è un problema assai evidente di credibilità politica, di strategia e di idee: l’esperienza al governo del M5S in pochi mesi ha evidentemente creato in molti elettori un misto di malumore e delusione. D’altro canto il consenso che nasce dalla protesta e dal risentimento per definizione non è mai stabile o fedele: cerca sempre chi sappia farsene interprete con un timbro di voce più urlato, o con una maggiore capacità a cavalcare i cattivi umori.
I capi del movimento, a partire da Di Maio, hanno cercato anch’essi di intestarsi l’insofferenza degli allevatori, immaginando magari un’escalation sul modello dei ‘gilet gialli’ francesi che li avrebbe premiati, salvo scoprire che a giovarsene è stato solo l’alleato padano: storicamente più a suo agio, va ricordato anche questo, con le battaglie e le rivendicazioni di agricoltori e allevatori, che al Nord hanno sempre rappresentato una sua inossidabile base elettorale. L’esperienza in politica è sempre un vantaggio per chi la possiede, che si tratti di governare o di cavalcare la piazza, o magari di fare le due cose contemporaneamente come in questo momento Salvini riesce a fare.
Resta la solita domanda: quale l’effetto di questo voto sul quadro nazionale, sempre che queste tendenze vengano confermate alla fine dello scrutinio. Sino alle europee è difficile che possa accadere qualcosa d’eclatante. Tutti si stanno organizzando per quella scadenza, che in virtù del meccanismo proporzionale di voto definirà i veri rapporti di forza su base nazionale, e nessuno – nemmeno il Pd – ha interesse a che si verifichino scossoni o traumi. Solo dopo si potrà eventualmente pensare ad un rimpasto di governo, a ribaltoni parlamentari, ad un cambio di maggioranza o, come ipotesi estrema, a elezioni politiche anticipate. Ciò non toglie che il travaso ormai acclarato e quasi meccanico di voti dalla Lega al M5S, che sembra essersi realizzato anche in quest’occasione, impone a quest’ultimo un cambio di passo. Esclusa nell’immediato l’ipotesi di una rottura – che pure alcuni vorrebbero, a partire da Grillo, nel timore che il calo progressivo nelle urne diventi un vero e proprio crollo elettorale – è più ragionevole pensare ad un acuirsi della competizione tra i due populismi su ogni possibile tema, al fine di distinguersi e rendersi riconoscibili agli occhi dei votanti effettivi e potenziali. Il governo andrà comunque avanti, come rassicura Conte. Ma è probabile che proceda a scartamento ridotto e a colpi di veti incrociati. Chi ci guadagnerà alla fine tra i due contendenti, difficile dirlo. Chi ci perderà, con l’economia in drastico rallentamento, è invece certo: gli italiani e l’Italia.
Editoriale apparso sui quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 25 febbraio 2018
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