di Federico Donelli
A pochi giorni da una tornata elettorale (amministrative) che si preannuncia essere l’ennesimo referendum ‘pro’ o ‘contro’ Erdoğan, a preoccupare il leader turco sono i recenti sviluppi regionali. In particolare, al centro delle attenzioni della politica turca vi è la Siria dove dal gennaio del 2018 è in corso l’operazione militare ‘Olive Branch’. La scelta di intervenire militarmente in territorio siriano fu dettata da considerazioni tanto di politica interna – avvicinamento tra il partito di governo AKP e le componenti nazionaliste rappresentate dal MHP – quanto di politica di sicurezza – impedire il consolidamento delle posizioni curde -. Tuttavia a causa degli ingenti costi, economici e politici, la Turchia non potrà sostenere ancora a lungo un intervento senza il rischio che vi siano dei seri contraccolpi interni. Motivazioni che avevano portato a salutare con favore la decisione di Trump di ritirare le truppe stanziate in territorio siriano a supporto delle milizie curde (YPG). Una decisione arrivata dopo un lungo braccio di ferro scandito da dichiarazioni infuocate, nel pieno stile impulsivo e imprevedibile dei due Presidenti, e da una fitta serie di contatti informali. Nonostante i rapporti Turchia-USA siano tutt’altro che normalizzati, lo dimostra la decisione di Ankara di procedere all’acquisto del sistema di difesa missilistico russo (S-400) oltre alla delicata questione Gülen, le decisioni di Washington sulla Siria sono sembrate essere una mano tesa verso lo storico alleato. Nelle ultime settimane però a inquietare il Presidente turco è il crescente coinvolgimento dell’Arabia Saudita. Nello specifico, Riyadh seguendo quanto fatto in precedenza dagli EAU, ha rafforzato le relazioni con lo YPG, considerata dalle autorità turche branca siriana del PKK. Questi sviluppi rappresentano solo l’ultima, in ordine di tempo, prova della distanza venutasi a creare tra il regime saudita ed Ankara.
Dopo il colpo di stato militare in Egitto (2013) è emersa infatti la frattura intra-sunnita che divide gli EAU, l’Arabia Saudita e l’Egitto da una parte, e la Turchia e il Qatar dall’altra. Nonostante un breve intermezzo di posizioni condivise legate alla scelta saudita di intervenire militarmente in Yemen (2015), la frattura è stata sancita dal blocco da parte dei paesi del Golfo del Qatar nella primavera del 2017. Da allora è diventata evidente la configurazione tripolare del Medio Oriente: il polo iraniano sciita, il polo arabo-sunnita a guida saudita e il terzo polo costituito dall’alleanza tra Doha e Ankara. Nonostante l’elemento identitario e più specificatamente settario venga accentuato e ancora più spesso strumentalizzato, alla base delle alleanze interne ai blocchi vi sono dinamiche riconducibili a logiche geopolitiche di bilanciamento e ad una visione condivisa della percezione di minaccia (balance of threat). A preoccupare soprattutto Abu Dhabi è l’attivismo turco nella regione e l’aperto sostegno dato all’islam politico che viene percepito come una minaccia primaria alla struttura del regime emiratino e alla stabilità dell’intera area del Golfo. Allo stesso tempo, dopo il coup egiziano, dietro cui vi sarebbe un coinvolgimento da parte dell’asse saudita, la Turchia e l’alleato qatarino temono per la sicurezza dei rispettivi regimi. Questi fattori aiutano a comprendere come l’intervento militare turco in Siria, finalizzato a scongiurare la formazione di un’entità autonoma curda (Rojava), sia stato percepito dall’asse arabo-saudita come un’indebita ingerenza della Turchia in una sfera di influenza giudicata di preminenza araba. Di conseguenza, gli EAU hanno scelto di ampliare le aree di contrasto all’influenza turca adottando politiche di containment e di pressione non solamente in Siria ma in una molteplicità di scenari regionali come la Libia, l’Iraq, la Somalia e il Sudan. Significativa in tal senso è stata la visita compiuta da alcuni ufficiali emiratini a Qamishli, capitale de facto del Rojava.
La sfida geopolitica lanciata da Abu Dhabi alla Turchia è stata condivisa negli ultimi tre anni anche da Riyadh dove la centralità acquisita all’interno della famiglia reale da Mohammed bin Salman ha favorito una profonda revisione della strategia di politica estera nonché il rafforzamento della cooperazione con l’alleato emiratino. Le tensioni tra sauditi e turchi sono rimaste in parte celate a causa dei molti interessi economico finanziari che legano i due paesi. Tuttavia, nella primavera del 2018 durante una visita al Cairo Mohammed bin Salman, riprendendo un’idea cara alla sua controparte emiratina Mohammed bin Zayed per alcuni suo mentore, ha dichiarato che la Turchia, l’Iran e i movimenti di islam politico rappresentano un ‘triangolo del male’ in grado di destabilizzare l’intera regione. A distanza di pochi mesi, l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita di Istanbul ha di fatto costituito l’innesco di una situazione da tempo pronta ad esplodere. La Turchia, con un Erdoğan in prima linea, ha cercato di sfruttare la situazione per provare a riabilitare la propria immagine internazionale e assestare un duro colpo alla credibilità del rivale saudita. In poche settimane il governo di Ankara ha assunto un ruolo di primo piano nell’inchiesta, condannando pubblicamente l’operato dei servizi di intelligence sauditi e di colui che viene considerato a tutti gli effetti il mandante, ossia Mohammed bin Salman. Una strategia che in parte ha dato i suoi frutti ma che ha avuto come effetto collaterale quello di attirare le attenzioni saudite in un contesto, quello siriano, nel quale negli ultimi anni Riyadh aveva deciso di ridurre il proprio coinvolgimento. Allo scoppio del conflitto siriano, Turchia e Arabia Saudita si trovavano dalla stessa parte del fronte, supportando entrambe diverse milizie sunnite tra cui Jaish al-Fatah. Tuttavia l’ingresso della Russia, il cambiamento dei rapporti di forza sul terreno e la necessità turca di scongiurare un’alleanza tra Putin e i curdi, hanno spinto la Turchia a rivedere le proprie posizioni fino ad accettare una futura Siria ancora saldamente nelle mani del ‘grande nemico’ Assad. Negli ultimi due anni Riyadh, dopo una fase di stanca dettata anche dagli sforzi in corso in Yemen, ha deciso di avviare una fase esplorativa per consolidare i rapporti con le milizie curde. L’interesse di Mohammed bin Salman per i curdi non è nuovo ma risale già al periodo in cui il principe ereditario era al vertice del Ministero della difesa. Successivamente, assunto il ruolo di leadership della politica saudita, Mohammed bin Salman ha inviato il Ministro per gli affari del Golfo, Thamer al-Sabhan, a Raqqa città simbolo del sedicente Califfato e liberata dai curdi con il supporto statunitense. In quell’occasione i sauditi si dissero pronti ad assumere un ruolo di responsabilità nella ricostruzione e nella stabilizzazione dell’intera provincia circostante posta sotto il controllo delle forze curde PYD e YPG. Una promessa fatta non solamente ai leader curdi ma anche all’inviato speciale di Washington Brett McGurk che a distanza di dieci mesi l’Arabia Saudita ha mantenuto stanziando un finanziamento di poco più di 100 milioni di USD. Gli sviluppi degli ultimi mesi, tutti ancora da confermare, darebbero l’Arabia Saudita e gli EAU pronti a dispiegare truppe a sostegno delle milizie curde in contrasto all’avanzata turca. Una notizia mai negata dai due alleati ma, al contrario, in qualche modo confermata da una serie di tweet e dichiarazioni sibilline come quella del Ministro degli Esteri emiratino, Anwar Gargash che a febbraio ha elogiato l’impegno dello YPG nel contrasto al terrorismo di matrice religiosa. Aspetto interessante è che agli occhi del polo arabo-saudita, la definizione di terrorismo di matrice religiosa venga interpretata in maniera estensiva includendo essenzialmente i Fratelli Musulmani e condannando i loro principali sostenitori, ossia Qatar e Turchia. Agli occhi di Riyadh i curdi vengono considerati un alleato naturale, un attore per procura in grado di mettere pressione non solamente al regime di Assad e alla Turchia ma anche al vero obiettivo regionale di Mohammed bin Salman ossia l’Iran. Non è un caso che da alcuni mesi si stia assistendo ad una progressiva coordinazione tattica tra l’asse turco-qatariota e l’Iran. In particolare sulla Siria Ankara e Teheran hanno trovato da tempo una convergenza di interessi, decidendo nelle ultime settimane di avviare dei raid congiunti contro i miliziani del PKK operativi nelle aree di confine. Non è quindi da escludere che in futuro possano esserci azioni simili nei confronti dello YPG. Dal punto di vista della politica interna, nel bel mezzo della campagna elettorale, il coinvolgimento saudita nel nord della Siria viene cavalcato dalla stampa vicina ad Erdoğan, il quale è in costante ricerca di nemici, interni ed esterni, contro cui rivolgersi per compattare e mobilitare il proprio elettorato.
Il prepotente ingresso sulla scena siriana di un player come l’Arabia Saudita avrà senza ombra di dubbio degli effetti significativi anche sul cosiddetto processo di Astana, percorso di ricerca di una soluzione diplomatica alla guerra in Siria condotto da Iran, Turchia e Russia in parallelo ai negoziati ONU. D’altro canto, la Siria rappresenta una partita troppo importante per non essere giocata anche dall’asse arabo-saudita. Di conseguenza non è difficile immaginare che nelle prossime settimane i due alleati del Golfo possano colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti al fianco dei curdi. Sviluppi che inevitabilmente potrebbero avere ripercussioni inattese tanto nella definitiva risoluzione della crisi siriana quanto sui futuri equilibri regionali. La presenza saudita nel nord della Siria aumenterebbe la percezione di insicurezza turca e in particolare di Erdoğan che si troverebbe a dover fare i conti con la presenza ingombrante del proprio principale rivale regionale nel giardino di casa.
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