di Alessandro Campi
Dalla Cina alla Basilicata il salto è geopoliticamente lungo, ma la cronaca l’impone. Dopo aver discusso per giorni dei futuri equilibri mondiali e di come attraverso il soft power (commercio, scambi culturali e glamour diplomatico) le grandi potenze riescano oggi ad espandere la loro influenza globale più facilmente di quando utilizzavano le armi e le minacce, eccoci dunque a ragionare del voto lucano. Che non cambierà i destini del mondo, e forse nemmeno quelli dell’Italia, ma qualche indicazione politica sul nostro futuro immediato la fornisce ugualmente.
I dati al momento disponibili – sondaggi e prime proiezioni – danno per vittoriosa la coalizione di centrodestra. Dieci punti indietro si trova la coalizione di cui fa parte il Pd post-renziano. Mentre il M5S sembra attestarsi sotto il 20%. Con la legge elettorale vigente in Basilicata (introdotta nell’agosto 2018) è presidente il candidato che ottiene un voto più degli altri. Dovrebbe dunque avercela fatta Vito Bardi (nella foto di copertina), generale di corpo d’armata della Guardia di Finanza in congedo, voluto da Berlusconi e sostenuto dall’intero centrodestra. Per la distribuzione dei seggi (venti in totale, al quale si deve aggiungere quello del presidente eletto) bisognerà attendere i risultati finali e ufficiali. La legge prevede un premio di maggioranza articolato: con una coalizione o lista che ottiene tra il 30 e il 40% si ha ad esempio diritto a 11 seggi, che diventano 12 se si supera il 40%.
Per il centrodestra si tratta della sesta presidenza ottenuta a partire dalle politiche del 2018 (dopo Trentino, Friuli, Molise, Abruzzo e Sardegna). Ma questa volta il bottino appare particolarmente ghiotto. La Basilicata era dal 1995 una regione a guida ininterrottamente “rossa”. Non solo, ma da queste parti il centrosinistra alle regionali otteneva percentuali assai più alte che alle politiche, grazie all’apporto del voto personal-clientelare: nel 2010 e nel 2018 erano state intorno al 60%. Insomma, un ribaltone in piena regola.
Nel centrodestra si è prodotto l’atteso ribaltamento dei rapporti interni tra i partiti della coalizione. Alle ultime politiche Forza Italia aveva ottenuto in Basilicata, rispetto al resto delle regioni meridionali, il risultato peggiore: il 12,4%. La Lega, rispetto al partito berlusconiano, la metà dei consensi: il 6,2%. Da ieri le parti si sono invertite.
Salvini ha ovviamente di che gioire. Potrà ora ragionevolmente rivendicare per il suo partito il candidato governatore per il Piemonte (dove si voterà il prossimo maggio, in coincidenza con le europee). Ma l’egemonia nel centrodestra non equivale ancora all’autosufficienza politico-elettorale o all’indipendenza assoluta dal Cavaliere. Per quanto forte, la Lega per governare deve stare in coalizione con altri: il M5S al centro, Forza Italia e Fratelli d’Italia in periferia. Ma più passa il tempo (e più il centrodestra si conferma vincente sul territorio) più per Salvini s’avvicina il tempo della scelta, difficile da rimandare dopo che il voto europeo avrà certificato la sua forza effettiva su base nazionale.
Dopo le disavventure politico-giudiziarie di un cacicco del calibro di Marcello Pittella, finito agli arresti domiciliari per un’inchiesta su concorsi truccati e nomine pilotate e quindi costretto alle dimissioni da presidente, il Pd non poteva certo sperare di salvare il feudo lucano. Da qui anche la scelta di un candidato, Carlo Trerotola, proveniente come suol dirsi dalla ‘società politica’ e senza passate esperienze politiche (fatta salva l’ammirazione, dichiarata dal diretto interessato, in un momento di ingenua sincerità, per la figura di Almirante del quale il padre era amico e seguace).
Alle politiche del 2018 il partito guidato ancora da Renzi aveva ottenuto il 16,1% (appena sotto il 20% il dato della coalizione di centrosinistra). Partendo da così in basso si poteva solo migliorare, ma il voto di ieri (forse aiutato da un’affluenza alle urne che dovrebbe essere cresciuta rispetto al 47,6% delle precedenti regionali) non è solo un segnale di crescita che lascia ben sperare per il nuovo corso della segreteria Zingaretti (un incremento già fatto registrare dai sondaggi effettuati subito dopo la sua vittoria alle primarie). E’ il ritorno del Pd al ruolo di seconda forza e di competitore diretto del centrodestra (ma in coalizione, non da solo). Troppo presto per parlare di un nuovo bipolarismo (che nella sostanza sarebbe vecchio e già sperimentato), visto che i grandi attori sulla scena restano pur sempre tre (anzi, a rigore sono quattro, considerate le divisioni nel centrodestra a livello centrale), ma politicamente il quadro sembra in rapida evoluzione rispetto agli equilibri scaturiti dal voto del marzo 2018.
All’epoca il M5S fece il pieno dei consensi, a partire proprio dalle regioni meridionali: in Basilicata toccò il 44,4%, quasi dieci punti oltre la media nazionale (35,9). Da allora ogni appuntamento elettorale è stato per i grillini un bagno di sangue che non si spiega solo con la mobilità-volatilità degli elettori, ma con il fatto che l’esperienza di governo è stata oggettivamente penalizzante per il movimento-partito fondato da Grillo: troppe attese, poche realizzazioni; molta buona volontà, tanto spirito d’improvvisazione. In politica la delusione degli amici crea danni più delle denunce degli avversari. Il risultato di ieri, giunto dopo l’ennesimo psicodramma sulla purezza che si va perdendo tra inchieste giudiziarie, prove d’inefficienza amministrativa e sorde lotte intestine, vedrebbe il M5S sotto il 20%. L’impressione, alla luce di questi cali repentini nei consensi, è che il voto ai grillini del 4 marzo 2018 sia stato il frutto di un incrocio di circostanze bizzarre, imprevedibili e soprattutto non replicabili, che ha finito per assegnare a questi ultimi una base elettorale abnorme e non rispondente alla loro reale forza sociale. I riposizionamenti verso il basso fatti registrare nel corso delle ultime tornate amministrative (compresa ora la Basilicata) probabilmente ci restituiscono una fotografia più attendibile di ciò che è realmente il M5S: un partito che vale il 20% degli italiani votanti, ma soprattutto una forza più adatta a fare opposizione e a canalizzare la protesta nelle assemblee rappresentative che a proporsi come attore del cambiamento istituzionale e come alfiere di una inedita forma di democrazia.
Forse a simili difficoltà e alle ricadute potenzialmente negative di questo voto sull’esecutivo voleva alludere il premier Conte quando ieri ha detto che la sua esperienza politica terminerà con la fine dell’attuale governo. Uomo della mediazione, proprio sul delicato dossier cinese si deve infine essere accorto quanto sia difficile (e comunque politicamente vano) cercare un accordo tra attori politici che hanno posizioni divaricanti sui temi fondamentali (a partire da come l’Italia deve muoversi nel mondo). L’impressione è che ieri si sia fatto un altro passo avanti sulla strada che giocoforza potrebbe portare Lega e M5s a separare i loro destini dopo averli uniti nel segno d’un cambiamento che sinora semplicemente non c’è stato.
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