di Alessandro Campi
La distanza politica tra Lega e M5S e quella personale tra Salvini e Di Maio sono ormai così grandi che ci si chiede come facciano a stare ancora insieme. Quanto un governo può sopravvivere alle proprie contraddizioni e divisioni? L’ultima lite, scoppiata a causa del Congresso delle Famiglie di Verona, ha dato in effetti l’impressione che il divario tra i due partiti si sia ormai fatto incolmabile. Da un lato una posizione, quella salviniana, nel segno del tradizionalismo sociale e del conservatorismo culturale. Dall’altro la denuncia grillina del pericolo di un “nuovo medioevo” in materia di diritti civili e di libertà individuali. Quale politica comune può nascere da posizioni culturalmente opposte?
Eppure la volontà di resistere sembra ancora più forte dei dissensi che quotidianamente si manifestano su ogni possibile materia. Il potere è un collante, come banalmente si dice. La vicinanza generazionale è a sua volta un fattore d’unione. Ma forse c’è qualcosa di più che una semplice convenienza alla base di questa sempre più anomala alleanza: fragile all’apparenza ma curiosamente tenace.
Nella divisione sempre più profonda di valori e obiettivi, tale da lasciare presagire un’imminente separazione, Salvini e Di Maio sembrano in realtà somigliarsi (e intendersi) su un punto dirimente: la capacità che hanno a muoversi sulla scena pubblica nel segno del mimetismo e di una relativa spregiudicatezza, e quindi di raccogliere voti e consensi in modo trasversale.
Non si contano, in quest’ultimo anno, le volte che hanno cambiato opinione o che, per ragioni banalmente elettorali, hanno adeguato i loro convincimenti agli umori della piazza, vestendo a seconda del momento panni diversi (nel caso di Salvini il mimetismo politico è anche un vezzo estetico). Leghismo e grillismo sono in fondo forme di bric-a-brac politico-ideologico tipicamente post-moderne: al loro interno, in un curioso mix di radicalismo verbale e spirito pragmatico, si trova potenzialmente di tutto.
Nella Lega, il produttivismo e la difesa dei costumi aviti messi a rischio dalla modernità, il ritualismo paganeggiante e le pubbliche esibizioni del crocifisso, il nazionalismo statualista e l’elogio delle piccole patrie. Nel M5S, il complottismo antiscientista e il futurismo tecnologico, la denuncia della politica professionale e l’assistenzialismo di Stato, l’intransigenza moralistica in materia di corruzione e il lassismo strumentale quando si tratta di giustificare i piccoli abusi commessi dal “popolo” per difendersi da una burocrazia invadente.
La loro, rispetto a quella degli avversari, è davvero una “nuova politica”: soprattutto per la capacità che hanno – tipica ormai delle leadership mediatizzate contemporanee tutte giocate sulla seduzione degli slogan più che sulla persuasione dei programmi – a orientare i propri programmi e proclami secondo gli umori contingenti e ondivaghi dell’elettorato. Il che significa mostrarsi disponibili ad abbracciare ogni causa, purché potenzialmente redditizia, non avendone una propria per cui battersi.
Ma se alla base del loro accordo c’è un simile collante – una politica come scontro elementare tra bene e male e che si preoccupa solo di cavalcare il risentimento sociale – forse si capisce la tenacia con cui, dopo essersi scambiati accuse e contumelie, si preoccupano anche di presentarsi come buoni alleati che intendono continuare sine die la loro esperienza di governo.
Tutto ciò per dire che non è affatto scontato, come pure si tende a pensare sul filo del buon senso, che dopo le europee l’attuale esecutivo sia destinato ad implodere. E’ vero che Salvini, ormai egemone nel centrodestra, potrebbe decidere di tornare con Berlusconi alle sue condizioni. Ed è vero che nel M5S che un’ala di movimentista e di sinistra che collaborerebbe volentieri con un Pd nel frattempo liberatosi di Renzi. Molto dipenderà ovviamente da come si distribuiranno i rapporti di forza reali con le elezioni del prossimo maggio. Ma perché non prendere sul serio Salvini e Di Maio quando, tra un litigio e l’altro, dicono che insieme arriveranno alla fine della legislatura?
Il modo come potrebbe proseguire la loro alleanza è paradossalmente nelle parole molto critiche che il capo leghista ha indirizzato in questi giorni nei confronti del premier Conte, accusato di aver perso quel ruolo super partes, da mediatore o garante, per cui era stato scelto, e di essere divenuto l’avvocato non più degli italiani ma del M5S.
Ma se si attacca così platealmente Conte (con l’obiettivo peraltro di colpire Di Maio che l’ha fortemente voluto in quella posizione istituzionale) non si finisce per affossare lo stesso governo? Così sembrerebbe. Ma visto che la politica spesso segue percorsi tortuosi non potrebbe essere che Salvini, convinto di fare un buon risultato alle europee, abbia piuttosto in testa una ridefinizione degli attuali rapporti di forza tra alleati? Insomma, un nuovo governo ma con la Lega che dopo l’appuntamento elettorale di maggio si troverà ad esserne il socio di maggioranza. La Lega alle europee potrebbe crescere ma non stravincere, così come in M5S potrebbe perdere ma senza tracollare. A quel punto, piuttosto che immaginare cambi di maggioranza in Parlamento, o un ritorno anticipato alle urne sempre imprevedibili negli esiti, perché non pensare ad un governo che a quel punto sarebbe non più giallo-verde ma verde-giallo?
Certo, non è un’ipotesi che possa piacere a chi – giustamente – accusa l’esecutivo in carica di essere inadempiente e privo di un programma coerente, ma ahimé non è una simile critica a renderla irrealistica. Semmai sono gli elettori che, votando diversamente da come dicono oggi i sondaggi, potrebbero affossarla sul nascere.
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