di Alessandro Campi
Realista e visionario, assolutista e repubblicano, “comico et tragico” seconda una sua folgorante autodefinizione, fiorentino e italiano (comunque spirito patriottico), “estravagante di opinione dalle commune et inventore di cose nuove et insolite” nelle parole del suo amico Francesco Guicciardini, pratico e teorico della politica (sua vera ossessione), cultore della classicità romana e iniziatore de facto della modernità laico-individualistica, Niccolò Machiavelli – nato il 3 maggio 1469, esattamente cinquecentocinquanta anni fa – non smette di allungare la sua ombra sul nostro presente.
Da un lato continua a risultarci inquietante, con la sua visione di un potere che nascendo dall’irrequietezza dell’animo umano – mai soddisfatto di ciò che si possiede e sempre bramoso di riconoscimenti – non riesce mai a produrre un ordine sociale stabile. Dall’altro non smettono d’affascinarci quel suo modo razionale di argomentare, espressione di un pensiero libero da ogni dogma o convenzione, e quella sua prosa sintetica, anti-retorica, essenziale, tagliente, ma anche d’inarrivabile eleganza (quell’italiano volgare che fu tra le cause della condanna espressa dalla Chiesa nei suoi confronti, avendo con questa scelta sfidato l’egemonia politico-culturale del latino ecclesiastico nel solco del protestantesimo nascente).
Il che non ci esime dal ricordare gli stereotipi o pregiudizi, in alcuni casi secolari, che si sono accumulati a partire dal suo stesso nome: banalizzazioni o deviazioni di un’opera altrimenti complessa e ricca, che include Il Principe e I discorsi, le opere storiche e le novelle satiriche, i dispacci diplomatici e le lettere agli amici, le commedie e i componimenti in versi, ma che per essersi radicate nell’immaginario popolare e nella cultura di massa non possiamo trascurare, essendo comunque anch’esse un’espressione, per quanto spuria, della sua incredibile e inarrivabile fortuna.
Per ricordare quest’anniversario, in effetti un po’ sghembo e forzato, il settimanale americano “Newsweek” – confermando la lettura pragmaticamente demonizzante che di Machiavelli si dà soprattutto nel mondo di lingua inglese (e che rimonta nientemeno che al teatro elisabettiano, quando il Fiorentino veniva appunto descritto dai riformati di Sua Maestà come un diavolo cattolico-latino) – ha ad esempio offerto ai suoi lettori un test psicologico in venti domande per farci scoprire il Machiavelli (dunque il male) che è in noi, partendo dall’idea che il machiavellismo non sia una corrente di pensiero o una tradizione intellettuale, ma una malattia dello spirito. Ne è affetto chi abbia una personalità caratterizzata dal cinismo, dalla freddezza emotiva, dalla mancanza di empatia verso il prossimo, dalla tendenza a manipolare gli altri. Insomma, la solita ma pervicace convinzione che Machiavelli abbia giustificato ogni comportamento – sino all’assassinio – in vista del successo mondano.
E pensare che Niccolò, come uomo, è stato in realtà tutt’altro che un calcolatore o un adepto del comportamento strategico, come attestano i suoi continui scacchi politici, il fatto che mai abbia ricercato l’agiatezza economica e il suo idealismo al limite dell’ingenuità: un cinico spregiudicato non si sarebbe ridotto a mendicare un impiego presso i Medici dopo essere stato defenestrato dai suoi incarichi, ma si sarebbe messo anzitempo al servizio dei nuovi potenti. E’ vero poi che ragionava (e scriveva) per dilemmi e alternative secche, che aveva una mentalità analitica, che d’ogni problema vedeva le molte facce e le diverse soluzioni, ma nel carattere e nel modo di fare quotidiano inclinava volentieri alla beffa, all’irriverenza, alle trivialità tipiche del mondo popolare, all’irriverenza verso i potenti tipica delle persone libere. Fa un po’ ridere, ma anche un po’ rabbia, che dopo averlo a lungo censurato e manipolato per aver detto null’altro che alcune ataviche verità sul comportamento umano, lo si voglia adesso trasformare nel nefando privo di morale che non è mai stato. Ma è il prezzo che sempre pagano i classici al risentimento di chi non riesce ad essere alla loro altezza: si imputano dunque a Machiavelli le miserie che noi postumi non riusciamo a governare.
Machiavelli è dopo cinque secoli il nostro autore più studiato e tradotto al mondo. Su di lui escono dunque libri e saggi quasi ogni giorno. Ma non è nazionalismo culturale scrivere che la machiavellistica migliore, criticamente più vivace e filologicamente più accorta, resta quella italiana: Chabod, Bertelli, Ridolfi, Sasso, Martelli, Vivanti, Inglese, per quanto diversi tra loro, appaiono inavvicinabili da una produzione internazionale sul Fiorentino che quando non è banalmente grossolana è scientificamente ripetitiva e monocorde (come l’ossessione anglofona sul Machiavelli campione delle virtù repubblicane). Dovendo consigliare cosa leggere a complemento di questi 550 anni dalla nascita vengono in mente i volumi da poco pubblicati da Carlo Ginzburg, Michele Ciliberto e Alberto Asor Rosa (1). Quest’ultimo in particolare lo ha letto come il migliore interprete, ancora oggi, della tragedia storica italiana: quella di un Paese mai assurto ad una vera unità politica e dunque sempre sul punto di dissolversi a causa dei suoi ingovernabili particolarismi e della miseria dei suoi gruppi dirigenti. Con l’avvertenza tuttavia che per essere veramente apprezzato e capito Machiavelli andrebbe in realtà letto senza filtri interpretativi, cominciando – se è concesso un consiglio finale – non dalle sue opere più conosciute ma dalle sue lettere: dove si trovano insieme il pensatore e l’uomo, acutissimo il primo, di un’autenticità assoluta e modernissima il secondo.
(1) C. Ginzburg, Nondimanco. MAchiavelli, Pascal, Adelphi, Milano, 2018; M. Ciliberto, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia, Laterza, Roma-Bari, 2019 : A. Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resocondo di una disfatta, Einaudi, Torino, 2019.
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