di Alessandro Campi
Mentre continua l’emergenza sanitaria e si tenta faticosamente di far ripartire il Paese dopo la lunga stasi e la grande paura, la politica italiana sembra ripiombata, nonostante le attese dei cittadini e le belle parole dei suoi esponenti, negli antichi vizi: la guerra per bande, il velleitarismo dei singoli leader, le divisioni interne ai partiti, le discussioni di sempre su una giustizia che nessuno sinora ha saputo riformare, sulle opere pubbliche che non si riesce a realizzare, sui conti pubblici il cui dissesto è sempre colpa degli altri, sugli immigrati utilizzati come arma di propaganda, sulla corruzione che tutti denunciano ma pochi combattono sul serio e con metodo.
Qualche tempo fa, il Presidente Mattarella ha paragonato il futuro che ci aspetta ad un nuovo dopoguerra: medesime difficoltà economiche e sociali, stesso spirito di sacrificio, analoghe speranze, eguale impegno da parte di tutti e alla fine un nuovo boom collettivo. Ma francamente non si scorge nulla di analogo alle idee, ai progetti e allo sforzo creativo che, terminata la seconda guerra mondiale, consentirono di trasformare una nazione ancora in gran parte contadina e poco abituata all’ebbrezza della libertà in una potenza industriale e in una solida democrazia occidentale.
La visione futura dell’Italia, un progetto organico di ricostruzione come premessa indispensabile agli anni complicati che ci aspettano. È esattamente quello che non si intravvede nelle discussioni in corso, viziate da un errore di metodo. Ci si concentra sugli uomini (pro o contro l’attuale premier Conte, pro o contro Draghi come suo potenziale successore), si ragiona allegramente (e inutilmente) di elezioni anticipate in caso di fallimento dell’attuale maggioranza, ci si chiede quanto quest’ultima possa al contrario durare o se sia possibile realizzarne una diversa in Parlamento, ma poco o nulla si ragiona su quali temi o assi dovrebbe concentrarsi, dal punto di vista strategico e degli obiettivi, la cosiddetta “ricostruzione”.
Che certo non potrà risolversi, come qualcuno forse pensa, in una politicamente generosa redistribuzione di ricchezza finalizzata, con la scusa dell’equità sociale, al consenso elettorale. Il ritorno dello Stato nella vita pubblica e nella sfera economica sarà, dicono molti, uno degli effetti politici duraturi della pandemia, ma l’assistenzialismo di massa a spese delle finanze pubbliche è esattamente ciò di cui l’Italia non ha bisogno se è vero che la politica dei sussidi, per definizione, allevia appena il disagio dei destinatari, non crea sviluppo e soprattutto svuota le casse. Servono semmai scelte coraggiose e di lungo periodo, collettivamente condivise, politicamente vincolanti, magari sul momento impopolari, su come ridisegnare – approfittando di una crisi tanto grave quanto potenzialmente salutare – l’architettura stessa dello Stato italiano nei più diversi ambiti e i meccanismi, spesso farraginosi, che governano la società nazionale nel suo complesso.
In queste settimane sono emerse, in forma frammentaria e disorganica, molte idee e proposte originali relative al nostro futuro, possibile e necessario. Le molte cose che dovremmo fare per uscire dall’emergenza sanitaria possibilmente più forti di come in essa siamo entrati: gli spazi urbani da riprogettare, una nuova politica industriale per non risultare perdenti nel “grande gioco” della post-globalizzazione (ne ha scritto Romano Prodi su queste pagine), un equilibrio meno conflittuale tra governo centrale e autonomie territoriali, la creazione di una rete infrastrutturale (materiale e immateriale) più avanzata, nuove politiche del lavoro alla luce delle potenzialità oggi offerte dalla tecnologia, politiche sociali a misura di una popolazione che invecchia e politiche demografiche in grado di compensare l’allungamento fisiologico della vita media, un approccio finalmente pragmatico al tema dell’immigrazione, una burocrazia pubblica più snella e funzionale, un sistema fiscale al tempo stesso più rigoroso contro chi evade e meno opprimente verso chi crea ricchezza e rispetta le regole ecc.
Certo, per realizzare tutte queste cose – che andrebbero però pensate in forma unitaria e integrata, alla stregua di un vero e proprio Programma o Agenda per l’Italia – servono soldi e risorse, ma servono anche idee e volontà. Servono inoltre la politica e uomini che sentano la responsabilità dei ruoli istituzionali che ricoprono. E qui s’apre l’incognita vera che grava sull’Italia, ben più pesante del disagio sociale che sarà inevitabilmente prodotto dalla fase recessiva nella quale siamo già entrati. Incognita che riguarda il comportamento e le scelte delle forze politiche che al momento si dividono la scena.
Il panorama non è incoraggiante, se si guarda ad esempio a quelle di governo. Il M5S, partito ancora maggioritario in Parlamento, è diviso come non mai al suo interno, manca di una guida politica unitaria, oscilla paurosamente in tema di alleanze internazionali e soprattutto non riesce a emanciparsi – pur essendo stabilmente al governo da quasi due anni – dalla sua matrice settaria, dal suo inclinare spesso alla demagogia e al pressappochismo. Il Pd, solido partito di establishment, l’unico con contatti stabili e organici a livello europeo, sembra indeciso tra la difesa dello status quo (il governo giallo-rosso nato come antidoto al salvinismo dei “pieni poteri”) e una strategia di riformismo pragmatico che non riesce a intestarsi come progetto riconoscibile. Mentre Renzi, il terzo attore, si trova preso tra il sostegno decisivo a un governo del quale non condivide il programma e l’ispirazione, lo spettro di elezioni anticipate che per il suo partito sarebbero al momento esiziali e la ricerca di una maggioranza parlamentare alternativa all’attuale che però non gli riesce di raggrumare. Esiste insomma un esecutivo destinato probabilmente a durare sino a che durerà l’emergenza sanitaria, ma manca tra chi lo sostiene una visione condivisa dell’oggi, figuriamoci del domani.
Altrettanto sconsolante è lo scenario se lo si guarda dal lato dell’opposizione, che sembra avere dalla sua i numeri (sondaggi alla mano) ma non la credibilità necessaria a considerarla un’alternativa al momento praticabile. Salvini ha smarrito la presa mediatica che aveva sull’opinione pubblica e con essa ha visto scendere i suoi consensi e la sua stessa leadership: all’interno del centrodestra come della Lega, dove qualcuno comincia a chiedersi se il pragmatismo di governo alla Zaia non sia da preferire alla propaganda ansiogena e aggressiva che è sempre stata la specialità di Salvini. La Meloni, dal canto suo, gode di un credito personale crescente, anche perché donna in un paesaggio politico che resta maschilista e vagamente misogino, ma non riesce a emanciparsi da un nazionalismo verbale e retorico sul quale è difficile fondare politiche pubbliche realistiche, coerenti e convincenti. Infine, Forza Italia: al momento inclina per ragioni tattiche (non restare schiacciata tra i due alleati sovranisti) ad un atteggiamento nel segno della responsabilità e del dialogo, al punto da ammiccare al governo in carica, ma fuori dal recinto del centrodestra, da lui stesso inventato, Berlusconi sa bene di non avere né grandi spazi di manovra né un grande futuro elettorale.
Quale rinascita o nuovo miracolo italiano ci si può aspettare se questo il quadro? D’altro canto non ci può inventare statisti che non esistono, se non nei libri di storia, o nuovi partiti che nessuno voterebbe. C’è dunque solo da sperare in un radicale cambio di passo della classe politica che abbiamo, che però in questa fase delicata non va lasciata da sola o fatta unicamente oggetto di denunce e reprimende. Per la ricostruzione da avviare c’è infatti bisogno di un grande sforzo collettivo, che oltre la sfera politico-istituzionale non può che coinvolgere i gruppi dirigenti del Paese ad ogni livello: alta burocrazia, imprenditoria, stampa, finanza, mondo intellettuale, associazionismo, ricercatori e innovatori in ogni ramo, specialisti del digitale e dei nuovi universi tecnologici ecc. Tutti egualmente chiamati a fornire, oltre ogni divisione e sempre che essere una comunità nazionale abbia ancora un senso, idee, progetti, energie, visioni. L’alternativa è la palude italica di sempre, nella quale stavolta – invece di galleggiare – si rischia di affogare tutti.
- Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) dell’8 maggio 2020
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