di Giulio De Ligio

In una società votata al cambiamento, in cui tutto appare divenire, singolarità o eccezione, vi è sempre il rischio di dimenticare le più importanti questioni – o di considerarle vane e inafferrabili, come vana o nefasta appare allora quell’arte che l’uomo ha chiamato politica. È forse il caso di questo “momento” europeo.

L’edificio costruito – fondendole o smantellandole – a partire da vecchie nazioni e sulle macerie di una nemesi storica forse mal compresa scricchiola da tempo, e quando non scricchiola non sembra aver vita vera al suo interno – coscienza e volontà comune. Inizia a scarseggiare anche di abitanti e risorse, a dubitare del futuro delle sue conquiste. Il “momento” presente non richiede forse solo ai membri della casa europea di governare l’ennesima urgenza, ma li interpella nuovamente sul loro nome. È un’esperienza che si rinnova amaramente da almeno un decennio di fronte a crisi sempre nuove: dall’indecisione o divisione di fronte ad ogni guerra all’afasia costituzionale, l’Europa continua a mostrare i suoi vuoti, un’incertezza sulla sua forma e missione. In un palcoscenico ormai planetario, essa continua a dimostrarsi Amleto.

Quando le costruzioni vacillano, se non è inevitabile è almeno saggio interrogarsi sulla natura e la solidità delle loro fondamenta e del loro progetto. Possiamo oggi evitare una simile riflessione? L’astuzia della ragione storica ed economica riaffermerà presto l’armonia perduta, o la questione politica deve esser posta nuovamente al centro della piazza europea in tutta la sua chiarezza e, viene da aggiungere, con tutte le sue conseguenze? Probabilmente il dispositivo europeo ritroverà il movimento dei suoi interessi, persino magari “allargandosi” ancora, ma quanto a lungo? Ma con quali risorse? E con quale perdita invisibile di sostanza politica e spirituale? Quale Europa starà così procedendo?

Quando il corpo è gracile, porre simili questioni può sembrare vano e persino irresponsabile, un supplemento d’anima in un organismo per altre cause malato. La priorità consiste ovviamente nel tamponare l’emorragia o nel neutralizzare il virus. Quando però si tratta di corpi politici, vi sono considerazioni “intempestive” che aiutano gli uomini a ritrovare la loro giusta collocazione nella trama più vasta dei tempi e nell’orizzonte complessivo delle cose – dunque il loro passo. Poiché molti indizi suggeriscono che nuove miopi contese stiano prendendo forma, è allora bene chiedersi quale sia la vera natura del problema epocale (o perenne) che fa da sfondo alle tribolazioni italiche ed europee.

Nella congiuntura, del resto, ci si può sempre affidare alla prudenza – divinità anche di questo tempo – e al discernimento: è tanto frivolo attribuire al “mercato” la responsabilità di mali antichi del mondo o negare l’importanza del “sapere” nel governo del tutto sociale, quanto è illusorio cercare nel commercio o nella neutralità di soluzioni tecniche le vie della redenzione umana. Le cose non si governano da sé, né senza un sapere. La più pesante ipoteca che grava sul vecchio continente non ha però forse a che fare con l’intermittenza della crescita, né con la mancanza di “competenze” pubbliche specifiche, ma potrebbe essere quella che distoglie da tempo le nazioni europee dal riconoscere il contenuto e le precondizioni della loro “cosa comune” – se non quale spazio “amministrato” del dispiegamento individuale dei loro cittadini (o solitari associati?). Ogni fattore “esterno” si presenta ormai come un potenziale elemento di inquietudine e disgregazione, rivelando la fragile tenuta intima e materiale del corpo politico (con differenze tra le varie nazioni spesso poco sostanziali). Dopo le antiche tentazioni autarchiche, non esperiscono forse oggi l’estremo opposto dell’abdicazione governativa? Nella dialettica coestensiva alla storia delle società tra interno e esterno, non sperimentano oggi una certa anestetizzazione dell’aspirazione al governo di sé? Non mancano di piena consapevolezza della “causalità umana” dei beni politici, morali ed economici? Non ha ricordato questo decennio all’uomo europeo che non può deferire al “processo del mondo” la responsabilità del suo destino? Non sono forse queste domande così intempestive anche in giornate così “eccezionali”.

Del resto, ci saranno sempre eccezioni, e sempre occorrerà discernere tra la loro gerarchia d’importanza e dimostrarsi capaci di farvi fronte. Di cosa dovremmo assicurare stabilità o rinnovamento? Attingendo a quali risorse profonde? «L’idea stessa di sacrificio sembra assurda a chi ignori l’esistenza di una gerarchia di beni», rammenta quel solitario saggio colombiano. Suo è anche l’avvertimento che la radice della vera vulnerabilità europea potrebbe ormai essere un’altra. Che sia almeno permesso evocare questo ragionato cri de cœur, a lungo grammatica di tanti nobili discorsi e oggi patetico agli occhi dei più: «Non possiamo capire né la storia di un popolo, né di un individuo, se non ammettiamo che l’anima dell’individuo o quella del popolo possano morire senza che muoiano il popolo o l’individuo » (G. Davila). Le nazioni europee sembrano davvero sottrarsi da tempo a quell’implicita domanda, alla questione del loro essere e agire nel mondo: come è stato scritto, almeno fino alla fine dell’ultimo secolo esse hanno per qualche decennio immaginato di dire addio felicemente alla Storia, quella politica che «si scrive con le lettere di sangue», che vive del confronto pacifico o conflittuale tra uomini e popoli altri e, dunque, dell’inevitabile e difficile ricerca del buon governo di sé.

Lo stato presente del mondo non notifica però la possibilità di un simile destino, e il processo che pure sta collegando e riplasmando il pianeta pare inscriversi come sempre in un orizzonte politico in cui gli uomini agiscono per il bene o per il male. Vi è molta ambivalenza o parzialità nel diffuso angelismo, a seconda dei casi “moralista”, “economicista” o “culturalista”, che permea tanti discorsi europei: fatto com’è l’uomo d’anima  e corpo, le dimensioni economica, morale, militare, ecc. di un’entità collettiva sono separabili solo in astratto – e per questo la vera arte politica sa comporle architettonicamente tutte e inscriverle nel mondo. Se una simile presa d’atto tarda in Europa a imporsi nuovamente è forse anche perché, tra le altre cose, si tende a credere che il processo economico e tecnico che abbraccia indistintamente uomini e continenti sia tanto virtuoso nella sua stessa universalità quanto davvero spontaneo e irreversibile, privo di fondamenta e non soggetto a deragliamenti o a decisivi incanalamenti alternativi. Forse questo sguardo – o questa scienza – può rivelarsi parziale o fuorviante rispetto all’insieme e persino all’essenziale dell’esperienza umana. A ben guardare, può risultare innanzitutto miope. Grandi spiriti settecenteschi avevano già rintracciato quelle caratteristiche tendenziali delle società moderne interrogandosi, alcuni di loro non senza una preveggente inquietudine, sul destino dell’Europa e di alcuni tratti dell’esistenza umana. La loro voce ci mette almeno in guardia rispetto alla “novità” delle nostre impressioni. «Calcolatori, ora tocca a voi: contate, misurate, comparate», non sono i moniti dell’editoriale di un giornale italiano di questa mattina, ma le parole di Rousseau. «L’età della cavalleria è finita – quella dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori ha preso il suo posto e la gloria dell’Europa è estinta per sempre» sono invece quelle, lucide e struggenti, di Burke.  Ancora lo spirito bifronte del ginevrino: «I politici antichi parlavano costantemente di costumi e virtù. I nostri non parlano che di commercio e di denaro». Suona davvero res nostra, anche se noi sembriamo aver perduto la loro consapevole nostalgia o la loro coscienza del “tutto” dell’esperienza umana. E quante celebrative pagine ottocentesche inquietano la nostra coscienza dell’unità pacifica del genere umano…

Dopo i tanti annunci trionfali o angosciati dell’avvento dell’età del commercio, dell’industria, degli individui uniti in una libera impresa di produzione e consumo, i tempi successivi non hanno smesso di testimoniare grandezze e miserie personali e collettive: il “secolo della politica” o del “male assoluto”, come è stato chiamato il Novecento, doveva persino ancora venire. Tutto, insomma, era ancora in gioco. E così è probabilmente ancora oggi. Non conosciamo il futuro né la data di Apocalissi tecniche o religiose. Quello che l’industria e il telegrafo, gli aerei e internet hanno nel tempo avvicinato forse lo sguardo più intimo e la coscienza collettiva continuano a dividere. Solo un mondo già unito e pacifico – o l’indifferenza morale – esime un popolo o un uomo dall’aderire, in atto e in pensiero, a un bene specifico, a una vocazione universale particolare. Solo un mondo in tutto riconciliato non ha bisogno di consapevolezza politica, di arte politica, della ricerca delle migliori forme politiche. Se non di una provincia di un solidale mercato mondiale o di una parrocchia di una comune Chiesa planetaria, di quale associazione umana stiamo allora parlando quando parliamo di noi stessi? Al di là delle retoriche scarne e ormai stanche (euro-entusiasti o euro-scettici rispetto a quale Europa? allargamento o approfondimento di quale entità?), delle illusioni concettuali e delle ambiguità morali, il momento è forse propizio anche per chiederci con pazienza e coraggio cosa ci tiene insieme – membri di nazioni, europei, o semplicemente uomini – oltre le intermittenti negoziazioni economiche o la necessità; per ripensare cosa può fare di uomini un’unione politica, una specifica comunità di destino nel mistero della fratellanza umana.

È una domanda che in Europa in pochi sembrano pronti a far propria, e al momento certo non i giovani europei del cui “futuro” ci si inquieta a ragione. Fedeli al loro “principio”, le democrazie europee sembrano generare da tempo esseri socievoli, specializzati e coscienti della loro similitudine, non necessariamente “buoni europei” consapevoli della “presenza” sospesa di ciò che ha fatto l’Europa e dunque capaci di rinnovare politicamente e spiritualmente i suoi contenuti: “studenti Erasmus” più che un “popolo”, verrebbe da dire. Così non stupisce poi molto che le corde delle anime sembrano ai più perdere tensione, che le forze sociali vengano meno, salvo esplodere in scriteriate fiammate, o che il tessuto politico appaia sfilacciato o in via di svuotamento.

Non si vuole questa una frivola geremiade né è la solita solfa di un lettore di De Maistre o Tocqueville. Basta ascoltare le parole di un laico artefice dell’Europa odierna, di un padre della nostra moneta “unitaria”: «Riconosco che era più facile per la mia generazione difendere la necessità dell’Europa. Oggi è più complesso. […] L’individualismo odierno porta le persone a ripiegarsi su se stesse. Ci aggiunga pure, lo dico da laico, il declino dell’influenza delle religioni. La maggioranza dei giovani pensa che noi siamo i soli maestri e giudici del nostro destino. Io credo che questa società stia cominciando a liquefarsi». (Intervista di J. Delors al «Corriere della sera» del 19/9/11).

Tutto già sentito, ma è allora forse permesso auspicare che si comincino a trarre tutte le conclusioni – e fino in fondo – da questa impressione comune a tante piazze e a tanti libri: non tanto per ridare evidenza all’eventuale “necessità dell’Europa” (ancora, quale Europa e quale Europa politica?), ma innanzitutto per ridar vita agli elementi che l’hanno sostanziata, fossero anche matrici religiose o nazionali, e al loro dialogo. Senza evocare sterilmente “ideali” o “valori”, è forse tempo di tornare a chiedersi davvero – in coscienza e “visibilmente” – di quale destino comune siamo eredi e responsabili, o ciò che può unire, in azione o in pensiero, le nostre libere vite perfezionandole. Forse le leggi del mondo imporranno agli europei – a un prezzo salato e magari in ritardo – quella questione. Forse basteranno i decreti della storia o la sfida dei flussi di uomini e risorse a indurli ad azioni comuni. Anche la necessità continua a sedere tra i legislatori del mondo. Ma la “gloria dell’Europa”, ma la vitalità o la dialettica delle sue possibilità, ma la sua vera testimonianza, non sarà forse estinta solo se buoni europei sapranno tornare a riconoscere i loro debiti e i loro fini, a rinnovare nel concerto europeo e planetario le loro voci, a deliberare sulle cose del mondo.

Per quanto ne sappiamo, non solo il nostro bilancio pubblico, ma tutto è ancora in gioco, la salvezza delle singole anime e quella delle città. I veri rischi e le più importanti questioni sono ancora davanti a noi. All’ombra dei calcolatori, nell’unità ambivalente del mondo, è ancora tempo di pensare, giudicare e agire.