di Davide Ragnolini

Paul-Kennedy (2)Da sempre i grandi storici ambirono a rappresentare il passato per predire il futuro, tentando di abbracciare con la loro opera il maggior spazio geografico possibile, dall’ecumene romano al mondo globale. Negli anni ‘80 nonostante la proclamata fine delle “grandi narrazioni” filosofiche, la ricerca di un modello di destino per comprendere la sorte del mondo occidentale ha mosso le aspirazioni di grandi narrazioni storiche, degne degli antichi. L’opera di Polibio, probabilmente il primo storico che rese esplicito il proposito metodologico di una storia universale, era una storia politica di quei popoli entrati in rapporto conflittuale o pacifico con Roma. Mutatis mutandis, l’epoca unipolare delle relazioni internazionali, emergente alla fine del secolo scorso ed edificata sulla pax americana posteriore alla Seconda guerra mondiale, ha suscitato fino ad oggi simili grandi interrogativi storici. In forza di una sorta di “fatalità naturale del divenire”, per usare la bella espressione del Löwith di Meaning in History (1949), teorie storiche tra loro distanti nel tempo, da Polibio a Spengler, da Gibbon a Toynbee, pervenivano a riconoscere una medesima, semplice verità: che gli imperi crollano.

E chi avrebbe potuto avanzare quest’ipotesi per gli Stati Uniti proprio nella loro fase storica reganiana, mentre il rivale sovietico si avvicinava al collasso geopolitico? Trent’anni fa, il ruolo di Cassandra del declino statunitense fu assunto dallo storico inglese Paul Kennedy, con la pubblicazione del suo Ascesa e declino delle grandi potenze (1987).

La letteratura politologica statunitense abituò il suo pubblico a pensare alla longevità dell’egemonia statunitense nel mondo: Luttwak tentò di studiare le cause della resilienza militare romana nel suo La Grande strategia dell’Impero romano (1976) per individuare alcuni parallelismi storici utili ad una strategia del Pentagono improntata alla “difesa avanzata” dell’Impero; ancora John Ikenberry, in seguito, concepì gli USA come potenza leviatanica a cui più regioni del mondo avrebbero consensualmente e progressivamente ceduto potere (2001); Joseph Nye rifletteva sul “soft power” di una superpotenza USA rappresentata come “benevola” (2004), quindi sulla sua incontestata capacità di attrazione ideologica e di persuasione diplomatica nell’attuale età delle relazioni internazionali.

L’opera di Kennedy rifletteva invece per la prima volta sulle cause economico-militari del suo declino, quindi sul carattere temporaneo della posizione egemonica americana nel contesto della politica di bilanciamento tra emergenti potenze regionali. Si trattava certo di un’idea antica quanto la teoria humeana dell’equilibrio tra potenze, basata inoltre, a detta di Giddens, su un pregiudizio eccessivamente ‘statocentrico’ per l’epoca contemporanea, e ancora, a detta di Wallerstein, su un’analisi economica viziata da un certo determinismo nel modo di concepire il rapporto tra struttura e sfera militare. A posteriori, tuttavia, la fortuna di Ascesa e declino delle grandi potenze si può legittimamente ascrivere alla sua capacità di interpretare uno smottamento di zolle geopolitiche di cui oggi, dopo trent’anni, è possibile apprezzare la forza predittiva.

La tesi di Geoffrey Parker (1988) sulla conversione del potere economico degli Stati atlantici moderni in “rivoluzione militare”, o quella di Mearsheimer (2001) sulla trasformazione qualitativa della capacità economica in capacità offensiva da parte delle aspiranti grandi potenze, recano l’impronta di questo ampio studio economico-militare sulle coalizioni tra Stati occorse tra il 1500 e il 1945.

Quanto sostenevano autori quali Christopher Layne e Kenneth Waltz nel 1993 circa la natura transitoria dell’unipolarismo, destinato cioè a trasformarsi in bipolarismo o multipolarismo, si trova in nuce già anticipato nel discusso lavoro dello storico britannico. I timori per le conseguenze di un potere militare statunitense iperesteso (overextended), con i suoi rovesci sul piano dell’efficacia strategica e politica, e i suoi costi finanziari sul piano della sostenibilità economica, furono già condivisi dall’autore di Ascesa e declino delle grandi potenze. L’illusoria età unipolare, strenuamente difesa invece da studiosi “primacists” e da ottimisti apologeti di una strategia statunitense espansiva, nelle pagine di questo libro poteva incontrare forti obbiezioni e profonde ragioni di scetticismo. Dando luogo a “contraccolpi geopolitici” – secondo l’efficace locuzione di Christpher Layne – ogni politica di crescita della proiezione geostrategica di una grande potenza trova nel lungo termine il suo limite strutturale proprio nell’emersione di nuove potenze. Benché lo stesso storico inglese, come ammoniva nella sua introduzione, temesse di cadere “nell’arida trappola del determinismo economico”, la tesi centrale del suo lavoro era formulata piuttosto perentoriamente: tali tendenze di ascesa e declino delle potenze sarebbero empiricamente verificabili attraverso lo studio della correlazione tra il quantitativo di risorse economiche mobilitate dagli attori statali e la loro potenza militare. La storia dell’Europa moderna, sotto questo punto di vista, con la sua condizione di secolare frammentazione e decentramento politico, difficile equilibrio e competitiva corsa alle armi, poteva costituire per Kennedy già il modello per l’interpretazione di un mondo multipolare contemporaneo, in cui le regioni extraeuropee ascendono asindoticamente al rango di pari competitori con parti del mondo occidentale. La reazione dei critici di Kennedy ancora oggi si appunta attorno alla valutazione di questa distanza tra superpotenza statunitense e potenze emergenti.

9788811674641_0_500_0_75Come hanno sostenuto Stephen Brooks e William Wohlforth ancora l’anno scorso, a commento della influente tesi di Kennedy, in assenza di un metodo capace di integrare diverse letture dei dati economici e militari si rimarrebbe intrappolati in un approccio ‘polarista’ incapace di spiegare effettivamente i mutamenti qualitativi dello stesso sistema internazionale, e pertanto funzionale soltanto a dibattiti artificiosi. Il PIL sarebbe uno strumento obsoleto, cioè basato su uno standard economico peculiare al modello manifatturiero di metà XX secolo; la crescita industriale avrebbe quale controparte l’effetto di danni ambientali, rovinoso sullo stesso piano economico; l’attuale complessità della tecnologia militare renderebbe più difficile che in passato quella conversione della capacità economica in capacità militare assunta come fondamentale ipotesi dell’indagine di Kennedy; e ancora il divario tra la tecnologia militare statunitense e quella dei Paesi militari più avanzati, insistono i critici, sarebbe superiore rispetto a quello di altre epoche. Al di là della esattezza scientifica di alcuni singoli rilievi, le prospettive pessimiste di Kennedy circa il primato della super-potenza statunitense appaiono soprattutto oggi sufficientemente vigorose: il numero di grandi potenze militari, benché non certamente nella precisa configurazione della “pentarchia” ipotizzata nel 1988 (USA, URSS, Cina, Giappone, CCE), costituisce un aspetto rilevante dell’attuale panorama internazionale. Quel progressivo spostamento degli equilibri produttivi dall’Occidente all’Oriente che negli anni ‘80 suscitava reazioni di incredulità e diniego, è oggi riconosciuto come un truismo giornalistico. Il riconoscimento della possibilità di erosione del sistema bipolare, ufficialmente ancora in piedi quando Kennedy scriveva, e la sua transizione ad un sistema multipolare, rappresenta nel dibattito politologico contemporaneo uno degli argomenti più scottanti.

La fine dell’unipolarismo e della pax americana rappresenta un fenomeno discusso molto seriamente oggi dagli stessi studiosi statunitensi, non più un provocatorio pessimismo di un accademico britannico. Se la posizione di “declinismo” della superpotenza statunitense incontrava un’ostinata opposizione in un eterogeneo gruppo di studiosi (liberali, marxisti, realisti, istituzionalisti), è oggi il partito di pervicaci negazionisti del “declinismo” che sono chiamati a spiegare la crescente influenza di un “Beijing Consensus”, la perdita di “prestigio economico” statunitense a seguito della grande recessione del 2007, e la capacità della Cina di operare all’interno e all’esterno dell’attuale sistema internazionale, costruendo le basi per quello che Layne ha definito “l’ordine internazionale post-1945” (This Time It’s Real: The End of Unipolarity and the Pax Americana, 2012).

Se l’assunto statocentrico dell’approccio di Kennedy alla politica internazionale appare ad alcuni eccessivamente rigido nella sua impostazione, troppo ancorata ad una tradizione di Realpolitik passata, che ne è della proclamata politica neo-isolazionista statunitense verso la Cina? Dell’impresa di Pechino di affiancare, con la sua Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture, le tradizionali istituzioni finanziarie internazionali del ‘Washington Consensus’ sovvertendo il primato della moneta statunitense? Non sono forse questi grandi fenomeni manifestazioni contemporanee di quel “neomercantilismo” che Kennedy in Verso il XXI secolo (1993) aveva già indicato, descrivendo la competizione finanziaria e commerciale internazionale in forma analoga a quella militare, con la ‘cattura’ di nuove tecnologie, l’espansione e ‘occupazione’ di nuovi mercati, e l’ansiosa lettura degli indici di sviluppo tecnologico, o ancora economico-demografico, come indicatori di minaccia?

Il dibattito tra “declinisti” e ottimisti unipolari è dunque oggi al centro di ogni discussione sulla trasformazione del sistema internazionale, e anzi il principale paradigma con il quale valutarne il suo mutamento qualitativo nell’età post-bipolare presente. Non è certo quale partito vinca nel breve periodo tale dibattito accademico, ma è certo che, a trent’anni di distanza, il lavoro di Kennedy, per quanto rettificato in singoli aspetti, attesta nel complesso una vitalità teorica degna di una grande opera del realismo politico.

* PhD Researcher – Consorzio Filosofia del Nord Ovest (FINO) – Università degli Studi di Torino

 

 

 

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