di Alessandro Campi
Pragmatica, solida, determinata, anti-retorica, indifferente alla facile popolarità acquisita attraverso i social, un’eccezione nell’epoca della politica-spettacolo e dei capi seduttivamente fatui che vanno e vengono, Angela Merkel è l’unica e ultima statista rimasta in Europa. E proprio alla sua esperienza ultradecennale e alla sua indiscussa autorità politica ci si aggrappa, tra speranze persino esagerate e inevitabili timori d’un Quarto Reich distopico, nel momento in cui la Germania assume per un semestre la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea.
Quella tedesca sul resto degli Stati membri è stata per decenni una leadership fattuale, mai apertamente rivendicata, derivante dallo strapotere economico di quel Paese ed esercitata sulla base di un condominio asimmetrico, più simbolico che effettivo, con una Francia sempre abile nel sopravvalutarsi. Perché funzioni l’ambizioso programma annunciato per questa nuova presidenza, il ruolo di guida del continente, con le connesse responsabilità, dovrà finalmente assumere una connotazione apertamente politica, senza più gli infingimenti retorici di un’unione da perseguire tra pari o eguali che tali non sono. Nessuna forma di integrazione territoriale o politica si è mai realizzata nella storia senza l’azione di una potenza trainante ed egemone e l’Europa certo non farà eccezione a questa regola.
Ciò naturalmente non significa consegnarsi, Italia in testa, allo strapotere della Germania. Significa accettare una gerarchia delle forze che, una volta riconosciuta, potrebbe paradossalmente rendere più fluide le negoziazioni, gli accordi e il bilanciamento degli interessi. In Europa tutti hanno da guadagnare giocando finalmente a carte scoperte.
I fatti d’altro canto parlano chiaro, semmai ce ne fosse bisogno. L’allentamento (temporaneo ma comunque straordinario) del Patto di stabilità e la rinuncia alle politiche di austerità si sono realizzati solo perché a Berlino s’è cambiata idea rispetto al recente passato. Per convenienza, certo non per generosità astratta: un’Europa che si indebolisce e disgrega economicamente, o che implode socialmente, sarebbe penalizzante anche per il suo membro più forte. Dagli errori del 2010, quando lo strozzamento finanziario della Grecia aprì le porte al risentimento populista contro l’Europa dei banchieri e a una lunga stagnazione, qualcosa s’è imparato.
Al tempo stesso, se è vero che il piano straordinario di aiuti messo in campo dall’Europa per affrontare il dopo pandemia – potrebbero essere 500 miliardi di sole sovvenzioni a fondo perduto, oltre i 250 miliardi di prestiti a tassi agevolati – è stato lanciato per primo da Macron, è anche vero che esso ha cominciato a prendere corpo solo quando la Merkel l’ha avallato e fatto suo, superando le molte resistenze provenienti dalla Bundesbank e da vasti settori della politica e dell’economia tedesche, fedeli ad una ortodossia rigorista resa anti-storica dalla crisi sanitaria globale e che la Cancelliera ha giustamente rigettato dopo averla a lungo condivisa. Infine, è solo la Germania che, mentre è in corso una delicata trattativa sull’entità degli aiuti economici da concedere ai diversi Stati, può richiamare all’ordine i Paesi del centro-nord Europa cosiddetti frugali che con i loro veti minacciano di rendere vano anche il summit del prossimo 17-18 luglio. Sono Paesi che nel concerto europeo spesso parlano e agiscono per conto dei tedeschi, ma proprio per questo ne seguono sempre gli ordini finali.
Insomma, l’Europa post-Covid 19 potrebbe cambiare, nel segno di una maggiore coesione sociale, di un vasto programma d’investimenti (dal digitale all’economia verde), di politiche migratorie meno penalizzanti per gli Stati di prima accoglienza, di un rafforzamento della sovranità industriale del continente, di nuove regole sulle transazioni finanziarie e contro l’evasione, proprio sulla spinta di una Merkel che per essere giunta alla fine della sua parabola (concluderà il suo quarto mandato nel settembre 2021 e non intende ricandidarsi) ha tutto l’interesse a lasciare il proprio segno sull’Unione del futuro. Su cui pesano incognite pensanti non solo economiche e sociali, ma anche di natura geopolitica: i difficili rapporti di cooperazione-competizione con la Cina, lo sfilacciamento dello storico vincolo euro-atlantico, i conflitti cronici che rendono sempre più instabile il nord Africa, gli strascichi dell’abbandono britannico. Su questi diversi fronti, serve un’Europa forte e coesa, capace di agire come attore unitario su una scena internazionale dove in molti tifano invece per la sua disunione. Anche quest’obiettivo strategico rientra nell’agenda tedesca del prossimo semestre.
L’Europa, beninteso e lasciando perdere le belle parole dei discorsi ufficiali, è una struttura in cui la solidarietà tra membri non è mai totale e disinteressata, perché nessuno regala niente, ma s’accompagna sempre all’inevitabile sfida tra Stati con interessi non sempre convergenti (e alla capacità degli Stati di tessere tra loro intese, sub-alleanze e reti di relazioni più o meno formali). Da qui l’importanza della diplomazia e delle tecniche negoziali, che meglio funzionano, dal punto di vista dei singoli Stati, quando sorrette da una visione politica coerente e dalla credibilità personale di chi la realizza o l’interpreta. È più che mai, in questa fase delicata della storia europea, il problema dell’Italia, che con questo semestre di guida tedesca rischia molto, ma molto potrebbe anche guadagnare, se solo fosse capace di muoversi con intelligenza almeno tattica.
I pericoli nascono dai nostri soliti balletti, all’estero incomprensibili, tipo lo psicodramma in doppia salsa populista (leghista e grillina) sul Mes. Non si è ancora capito se mai utilizzeremo i 35 miliardi che avremmo a disposizione per investimenti in senso lato nella sanità. E se no, perché. Avremmo dovuto presentare a Bruxelles un piano nazionale delle riforme, ma ancora non l’abbiamo fatto, a dispetto dello sfoggio di task force che vi hanno lavorato e della interminabile passarella degli Stati generali. Un giorno si parla si parla di ridurre l’Iva, poi le tasse, nel frattempo si lavora per semplificare l’iter delle opere pubbliche: quale di queste soluzioni si adotterà concretamente? C’è poi la diffidenza, che meritatamente ci accompagna, su come spesso maldestramente utilizziamo i soldi: per opere inutili o che, peggio ancora, rimangono incompiute. La Merkel ci chiede riforme reali, non annunci, in cambio di aiuti. Riforme che però andrebbero fatte non a comando o sotto costrizione, ma perché servono all’Italia: per il suo sviluppo interno, stante lo spettro di una pericolosa crisi che rischia di travolgerci, e per renderla affidabile quando ci si siede intorno ad un tavolo per trattare e discutere.
Le opportunità o buone occasioni derivano dal fatto che in Europa, proprio dopo la Germania, siamo il Paese che, pur nella tragedia, meglio ha reagito (essendone stato travolto per primo) allo shock pandemico. E dal fatto che la Germania, pur guidando le danze nel continente oggi più che mai, ha comunque bisogno di partner e interlocutori, quale un’Italia appena meglio organizzata, politicamente più stabile e meno ondivaga su ciò che vuole potrebbe essere.
Sei mesi sono pochi per fare tutto quello che la Merkel ha annunciato, ma sufficienti per imprimere una svolta reale all’Europa, sotto l’effetto di una contingenza storica mai vista dai tempi della seconda guerra mondiale, e per capire quale partita in questo delicato frangente l’Italia riuscirà a giocare: da gregario deferente, sempre col cappello in mano e le idee confuse, o da Paese di quelli che un tempo si definivano seri e responsabili? Due settimane d’attesa e al Consiglio europeo straordinario avremo una prima risposta, speriamo non sconfortante.
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