di Alessandro Campi
Caporetto: una grave sconfitta militare trasformatasi, nell’immaginario collettivo degli italiani, in un mito politico negativo, spesso alimentato ad arte e tutt’ora pervicace. Proviamo a spiegare le cause della prima (la rotta dell’esercito italiano sul fronte dell’Isonzo il 24 ottobre 1917) e il significato del secondo (Caporetto come sinonimo di disfatta morale, di tradimento, o come prodotto della fragilità intrinseca d’una intera nazione).
Da settimane Austria e Germania, logorate, oltre che dalla lunga durata del conflitto, dal blocco commerciale che le forze dell’Intesa avevano imposto agli Imperi Centrali, stavano preparando un attacco congiunto. L’alto comando italiano era venuto a conoscenza dei piani, ivi compresi la data di inizio delle operazioni e l’esatta zona del tentativo di sfondamento, grazie ad alcuni ufficiali austroungarici disertori e prigionieri. Ma i massici movimenti di uomini e mezzi oltre le linee, in particolare nelle aree di Plezzo e Tolmino, erano stati interpretati da Luigi Cadorna, il comandante supremo, come un posizionamento operativo in vista dell’annunciata (e finale) offensiva italiana.
Anche quando l’attacco fu lanciato, all’alba del 24 ottobre – preparato da un lungo cannoneggiamento notturno con granate a gas e mentre l’intera zona era avvolta da una fitta nebbia –, si continuò a pensare che fosse un diversivo finalizzato a coprire il vero bersaglio degli austro-tedeschi unitisi nella XIV armata al comando del generale Otto von Below: lo sfondamento verso sud, in direzione del mare, del fronte della Bainsizza, dove nell’agosto precedente gli italiani si erano attestati al termine di ripetuti assalti che avevano sfiancato gli austriaci e convinto i tedeschi della necessità d’intervenire a sostegno dei loro alleati.
La cronaca di Caporetto, raccontata molte volte nei libri di memorie e di storia, fu un susseguirsi di cedimenti di postazioni, ordini sbagliati o tardivi, errori tattici, mancate controffensive, spostamenti insensati di truppe, decisioni improvvide di singoli comandanti rimasti senza direttive, culminata nel dilagare del nemico prima nella pianura friulana, poi in quella veneta. Il suo esito, dal momento dell’attacco al ripiegamento forzato sulla linea del Piave nel giro di meno di tre settimane, si riassume in cifre ancora oggi drammaticamente eloquenti quanto fatalmente approssimative: 11000 morti, 30000 feriti, oltre mezzo milioni di soldati prigionieri o sbandati, 600000 civili in fuga delle loro case, nonché migliaia di armamenti abbandonati durante la ritirata insieme a munizioni, viveri, mezzi di trasporto ed equipaggiamenti.
Una disfatta, in effetti. Ma la storiografia militare – confermando nella sostanza le risultanze della Commissione parlamentare che già nel 1918 fu istituita per fare luce sull’episodio – ha largamente chiarito come alla sua base non ci fu l’ignavia dei soldati o la loro impreparazione, bensì l’arretrata visione e conduzione della guerra propria di Cadorna, il collasso della catena di comando dell’esercito e l’inadeguatezza di molti ufficiali di complemento, giovani borghesi magari animati da grandi ideali patriottici ma spesso con scarse competenze militari.
In realtà aveva funzionato la meticolosa preparazione dell’attacco, soprattutto ad opera del comando tedesco. L’inutilità negli ultimi tre anni degli assalti di massa e delle offensive basate sulle battaglie di logoramento sul terreno, aveva indotto quest’ultimo ad adottare nuove soluzioni tattiche: ad esempio l’infiltrazione entro le linee nemiche di piccole colonne ben equipaggiate e addestrate, autonome dal punto di vista operativo e del comando, invece che i sanguinosi assalti ad ondate della fanteria contro le trincee avversarie che era esattamente il modo di concepire le battaglie – tutto incentrato sull’offensiva e sull’uso dei combattenti come carne da macello – cui Cadorna e l’alto comando italiano erano rimasti inchiodati.
Non a caso il nuovo comandante supremo, Armando Diaz, si preoccupò subito di dare ai combattenti un migliore addestramento, maggiori incentivi materiali (più licenze, un aumento del soldo, turnazioni più frequenti delle prime linee) nonché il sostegno psicologico-propagandistico che sino a quel momento era loro mancato.
Una sconfitta, come detto, divenuta ben presto, grazie ad una copiosa pubblicistica, la metafora di un Paese incompiuto, privo di spirito pubblico e incline al disfattismo, dunque una ferita psicologica destinata periodicamente a riaprirsi e a rinfocolare polemiche. Il precipitoso comunicato del 28 ottobre, con cui Cadorna accusava la truppa di vigliaccheria e salvava sé stesso da ogni colpa, da subito è stato letto come rivelatore di una distanza insanabile tra élite e popolo nella storia italiana: con le prime incapaci di assumersi le proprie responsabilità e il secondo inchiodato ad un ruolo subalterno e sacrificale. Lo stesso copione, per intenderci, che si sarebbe verificato l’8 settembre 1943. Indicando i soldati come traditori veniva peraltro creato quel fantasma del ‘nemico interno’ che avrebbe poi segnato la lotta politica nel dopoguerra e nuovamente diviso gli italiani tra i difensori della vittoria (nazionalisti e fascisti) e coloro che si ostinavano a infangarla (socialisti in testa).
In realtà non si trattò né di uno sciopero militare, alimentato dal mito rivoluzionario che veniva dalla Russia bolscevica, né della rivelazione delle tare antropologiche e dei difetti morali congeniti degli italiani, come la loro preferenza per il ‘particolare’ o la loro scarsa predisposizione al combattimento. Interpretazioni o stereotipi smentiti, a dispetto di ogni successiva polemica o strumentalizzazione, dall’andamento della guerra nei mesi successivi: come dimenticare che gli sconfitti e sbandati di Caporetto, con una nuova guida militare e una rapida riorganizzazione dell’esercito, furono anche i protagonisti della resistenza sul Piave e della battaglia finale a Vittorio Veneto?
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